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Reggio Emilia. Sabato 30 maggio alle Cucine del popolo per parlare di Expo

Posted: Maggio 29th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Reggio Emilia. Sabato 30 maggio alle Cucine del popolo per parlare di Expo
No Expo: un convegno con Capatti, Anselmi e Coniglione

no expo cucine del popolo

Sabato 30 maggio

Convegno No Expo

h 16.30 alla scoperta della vicenda Expo 2015 con Alberto Capatti, Guido Anselmi e Lorenzo Coniglione

h 20.30 cena sociale e conviviale

h 22 blues e poesia con Oracolo King, C.B. e Paul Aster

La relazione tenuta da Alberto Capatti, docente universitario e autore di libri sulla storia della cucina italiana, dal titolo “Cibo senza cultura” sarà incentrata sull’estrema ambiguità culturale dell'”evento Expo” che pretende di tenere insieme piccoli produttori biologici con la grande industria alimentare; la relazione di Guido Anselmi, Phd di sociologia economica presso l’Università Bicocca, dal titolo “Expo e il blocco edilizio contemporaneo” sarà incentrata sulla storia della speculazione dietro l’Expo e sulla composizione del blocco di potere che agisce sulle decisioni delle grandi opere e dei grandi eventi; infine Lorenzo Coniglione, pubblicista e redattore di Umanità Nova, interverrà in merito alle mobilitazioni NoExpo e al lavoro di controinformazione necessario per smascherare le dinamiche e le “narrazioni tossiche” a riguardo dei grandi eventi e delle opposizioni agli stessi.

Circolo Arci Cucine del Popolo
via Beethoven 78/e – Massenzatico (RE)

info 340 7693229  ||  facebook: Centro Studi Cucine del Popolo


Centenario Prima guerra mondiale: noi ricordiamo i disertori

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Centenario Prima guerra mondiale: noi ricordiamo i disertori

Con i disertori

Il 24 maggio 2015, in occasione della commemorazione di Stato del centenario della Prima guerra mondiale, noi ricordiamo quanti, di ogni nazione e in ogni tempo, durante ogni conflitto rifiutarono di prendere le armi per uccidere, in nome di interessi e ideali che non gli appartenevano, quanti avevano la sola colpa di essere nati dall’altro lato di una linea o di parlare una lingua diversa dalla loro. E nello specifico della Prima guerra mondiale, rifiutandosi con il loro no di andare a costituire la “carne da macello” delle “spallate” agli austriaci che gli ufficiali andavano ordinando, centinaia di contadini, braccianti, operai vennero fucilati, condannati, imprigionati.

Noi ricordiamo tutti i disertori.

disertore1

In questa occasione, lo facciamo con un piccolo estratto dal testo di Marco Rossi, “Gli ammutinati delle trincee”.

Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria dal piombo dalle linee retrostanti o da quello dei Carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale.

(Circolare n. 3525, 28 settembre 1915).

https://www.youtube.com/watch?v=q-axbssAcr8

… Il Codice Penale Militare in vigore al momento in cui lo Stato italiano entrò nel conflitto mondiale era ancora quello del 1869 che, peraltro, ricalcava quello del 1840; le sue norme avevano severamente segnato le guerre risorgimentali, le campagne antibrigantaggio e le imprese coloniali. In base a tale arretrato dettato giuridico, reati quali il tradimento, la codardia, la violata consegna o l’ammutinamento erano indistintamente quanto sbrigativamente puniti con la fucilazione, previa degradazione, così come attestano migliaia di di sentenze dei tribunali militari.

Impressionanti i dati riguardanti tale attività: 870.000 denunce, delle quali 470.000 per renitenza; 350.000 processi sommari celebrati; circa 170.000 militari condannati, di cui 111.605 per diserzione; 220.000 condanne a pene detentive, tra le quali 15.000 all’ergastolo; 4.028 condanne a morte (in gran parte in contumacia), delle quali 750 eseguite. Un numero quest’ultimo assai superiore a quello delle condanne capitali eseguite in Francia (600), Gran Bretagna (330) e Germania (meno di 50), nonostante la più lunga partecipazione al conflitto e il maggior numero di soldati impegnati dai rispettivi eserciti.

Almeno 130.126 condanne detentive vennero invece sospese e i rei furono rinviati al fronte per impedire che questi si sottraessero al loro dovere stando in carcere; in tal modo, alla fine del conflitto, la galera attendeva i superstiti, salvo essersi riscattati attraverso buona condotta, promozioni o decorazioni sul campo.

disertore

Non meno significativa risulta l’estrazione sociale dei condannati, desumibile dalle stesse sentenze che riportano i loro mestieri da civili: braccianti, carrettieri, contadini, falegnami, muratori, camerieri, scalpellini, carbonai, coloni, calzolai, marinai, meccanici, fornaciai, lattonieri, macchinisti, operai, agricoltori, impiegati, studenti, minatori, solfatari, mulattieri, lattai, fabbri, facchini, marmisti, parrucchieri, fonditori, stagnini, ortolani, mugnai, macellai, tessitori, ecc, con larga prevalenza dei lavoratori della terra, peraltro rispondente a quel 58 % (circa 2.600.000) che costituiva la struttura portante dell’esercito.

disertore3

Ancora minore indulgenza si registra nei confronti degli incriminati appartenenti a categorie marginali, quali vagabondi o mendicanti, come un presunto disertore di Palermo fucilato il 12 maggio 1917, dopo che una sentenza del Tribunale del XX Corpo d’armata l’aveva definito “pericoloso per la società e per l’esercito”.

A queste sentenze si aggiunsero innumerevoli circolari, ordini di servizio e disposizioni che non solo legittimavano ma incitavano all’utilizzo sistematico delle esecuzioni extra-giudiziali da parte degli ufficiali nei confronti di atti anche irrilevanti di disobbedienza dei subordinati, non solo “in faccia al nemico” ma pure genericamente “in presenza del nemico”; in una circolare , recante la firma di Cadorna, si poteva leggere che “il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi”.

… dalle più attente stime risultano essere non meno di 300 (ben più delle 107 ammesse dal Ministero della guerra) le esecuzioni sommarie accertate ma, secondo alcune fonti, ammonterebbero a 5.000 i “senza fucile” trucidati per sbandamento a seguito della disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917.

disertore10

Nelle confuse settimane della ritirata dall’Isonzo al Piave, quando si contarono circa 50.000 disertori e oltre 300.000 sbandati, a distinguersi per feroce zelo fu il generale Andrea Graziani, nominato Ispettore generale del movimento di sgombero, che si spostava incessantemente tra Piave e Brenta “portando con sé su una camionetta i carabinieri per le fucilazioni”. Talvolta indossando la divisa dell’Arma e armato di moschetto e rivoltella fu protagonista di una accanita caccia all’uomo, lasciandosi dietro una funesta scia di manifesti terroristici affissi per le contrade in cui venivano rese note le fucilazioni eseguite, anche per futili motivi; in alcuni casi infierì persino sui malcapitati, percuotendoli con la sciabola o un bastone, prima che fossero messi al muro.

… Pur essendo stato al centro di denunce e inchieste parlamentari sulla sua condotta, per cui era stato in precedenza decorato, Graziani rimase impunito e, durante il regime fascista , divenne Luogotenente generale della Milizia, sino a quando nel febbraio 1931 fu rinvenuto cadavere lungo la linea ferroviaria Bologna – Firenze, in circostanze che misero in dubbio l’ipotesi dell’incidente.

 


Libri. Eleuthera, LA VITA ALL’OMBRA DEL JOLLY ROGER

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Libri. Eleuthera, LA VITA ALL’OMBRA DEL JOLLY ROGER
Kuhn
LA VITA ALL’OMBRA DEL JOLLY ROGER
I pirati dell’epoca d’oro tra leggenda e realtà

2015
288 pp.
€ 16,00

http://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=386&utm_source=NEWSLETTER&utm_campaign=e0bf9f5042-novit%C3%A0+el%C3%A8uthera+maggio&utm_medium=email&utm_term=0_e34193198c-e0bf9f5042-150573997

Innalzando il jolly roger, la bandiera nera con il teschio e le tibie incrociate, si dichiaravano nemici di tutte le nazioni, ma la loro violenza si accompagnava spesso a un’affermazione dei diritti umani.
Gianni Vattimo


L’enorme attenzione che i pirati hanno ricevuto negli ultimi anni non si limita al grande schermo o al reparto giocattoli dei grandi magazzini. Questi “malfattori” di trecento anni fa hanno impregnato a fondo l’immaginario contemporaneo, riuscendo a creare una mitologia tuttora vitale. Nonostante la loro epoca d’oro sia collocabile tra il 1690 e il 1725, ancora oggi studiosi, scrittori, sceneggiatori e appassionati si dividono in accanite diatribe tra chi vede in loro degli audaci ribelli sociali, capaci di realizzare le prime forme di democrazia diretta, e chi invece li considera dei briganti crudeli e sanguinari. E in effetti i pirati furono entrambe le cose: fuorilegge pronti a depredare chiunque incrociasse la loro rotta e uomini liberi che rifiutavano una società “legittima” oppressiva e altrettanto violenta. Passando da Nietzsche a Foucault, da Che Guevara a Hobsbawm, da Sahlins a Clastres, l’autore ci racconta la storia non convenzionale di queste comunità nomadi, descrivendo – sempre in bilico tra leggenda e realtà – la vita quotidiana all’ombra della bandiera nera pirata.

Il diavolo si porti voi e la vostra coscienza, io sono un principe sovrano, con lo stesso diritto di far guerra al mondo intero che ha un monarca con cento navi in mare e un esercito di centomila uomini in campo; e me lo dice la mia coscienza; ma è inutile discutere con mocciosi come voi, che si lasciano prendere a calci dai superiori per tutto il ponte, e che prestano fede a un ruffiano di prete, che è una palla di sego che non crede né pratica ciò che mette in testa agli imbecilli cui tiene la predica”.
Saul Bellamy, capitano pirata

Federazione Anarchica Torinese: No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Federazione Anarchica Torinese: No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

L’agire rivoluzionario, nell’attraversare un percorso di trasformazione
radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, anche
narrazione.
La diffusione e l’accessibilità pressoché universale di strumenti di
comunicazione ha enormemente amplificato il carattere discorsivo
dell’azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. Su questo
confine si giocano partite di egemonia, che spesso sfuggono all’analisi e
al controllo di chi partecipa alle iniziative, pur avendo contribuito a
costruirle.

Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su una faglia
solida ma prismatica, dove si intrecciano più piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava qualche amante del
“realismo”, fanno la loro partita e contribuiscono a costruire una
narrazione difficile da ignorare, perché spesso costituisce e costruisce
una parte dell’opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – leggete l’ultimo
editoriale su infoaut – pur rivendicando il “riot”, lo avrebbe preferito
più “civile”, più forte nel proporre una comunicazione dove l’atto
distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. Pur
condividendo l’aspirazione ad una comunicazione che sappia farsi opinione
più allargata, dubitiamo che i media siano governabili dai movimenti.
Quest’analisi della giornata mette in scena una rappresentazione della
piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, ben al di là
dello spazio di una may day milanese, in cui le anime scisse della post
autonomia, si sono contese il monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre il gioco ma
non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce che il concetto sensato
della chiarezza degli obiettivi, venga delegato allo specchio dei media.
Ci permettiamo di immaginare che se il “riot” avesse colpito solo banche e
auto di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.

Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti la propria
narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina infranta, una scritta
su un negozio aperto il Primo Maggio, allusioni poetiche ad una narrazione
rivolta ai propri affini, che raramente riesce a farsi opinione condivisa
al di fuori di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.

Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, perché
l’epoca in cui la diffusione aurorale della stampa quotidiana produceva
“opinione pubblica” è tramontata e i piani su cui si costruiscono le
narrazioni condivise sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre
comunicanti.

La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è scesa in strada
per ripulire la città è frutto della proposizione della tematica del bene
comune in chiave nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri
del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione e saccheggio
rappresentati dal modello Expo. L’appannata amministrazione Pisapia ha
recuperato punti, l’Expo probabilmente meno.

Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media pullulavano
di complottisti che ripetevano la noiosa litania sugli infiltrati nero
vestiti: fortunatamente in meno di 24 ore questo argomento buono per tutte
le stagioni è stato riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente
comparire di queste tesi afferisce all’incapacità di confrontarsi con
pratiche eccedenti la normalità: se c’è la lunga mano della questura tutto
va a suo posto, non c’è lacerazione, non c’è divaricazione, non c’è
conflitto, non c’è divisione tra buoni e cattivi, perché i “cattivi” sono
ridotti al rango di burattini.
È un’interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente dibattito,
niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi sono finti. Una favola
triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull’immaginario.

La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee che hanno costruito
le giornate No Expo, il cui punto di arrivo e ri-partenza avrebbe dovuto
essere il Primo Maggio milanese.
Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una may day che
mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione plurale dove
l’agire comunicativo fosse condiviso da tutte le anime del corteo.
Una scommessa che il “riot” ha fatto saltare, svuotando di senso la
giornata dei “blocchi” del 2 maggio e portando alla cancellazione
dell’assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione corale
non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha tentato la
quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c’era un’aspettativa non
detta ma sussurrata di bocca in bocca: il primo maggio a Milano il “riot”
avrebbe riempito la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.

Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo scritto in inglese
perché se avessimo scritto sommossa, o rivolta sarebbe stata chiara a
tutti la distanza tra le parole e le cose.

“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell’immagine stereotipa che
si riproduce di piazza in piazza, di continente in continente. Ragazzi
mascherati, lacrimogeni, polizia, auto in fiamme e banche sfondate. Roba
che ritorna a tutte le latitudini, tanto che qualcuno sta teorizzando il
ritorno delle rivolte, senza accorgersi, che non hanno mai smesso di
esserci.
L’immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua del
conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è innegabilmente
seduttiva per tanti, perché narra l’immediatezza di un agire che non
rimanda ad altro, che si concreta nel subito, che ha in se il proprio
fine: comincia e finisce con la vetrina infranta.
A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, un gelataio
spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia di volontari
lavoravano per l’illusione di salire il mezzo scalino che divide i
sommersi dai salvati.

La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere e del
capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, ha una logica
debole, vista l’incomparabile distanza tra le infinite macerie del
capitalismo e i vetri infranti nel centro di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà c’è chi ha provato
a giocare il vecchio gioco dell’egemonia. Ma è una tela dalla trama
logora, che gioca sporco con i propri stessi compagni di “riot”, perché
nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della spontaneità. Una
spontaneità che non escludiamo si sia data in qualche occasionale processo
imitativo ma è improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c’è stata una sommossa ma un settore della piazza che per
un’ora e mezza ha messo in scena la sommossa.
Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a chi è stato
arrestato, a chi potrebbe perdere la propria libertà per anni. La vendetta
dello Stato affina i propri strumenti e sarà segno della maturità dei
movimenti che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia
sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo la rete delle
prossime operazioni repressive.

Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti di
esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di un corteo
conflittuale e, insieme, comunicativo.

Eravamo in coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino in
fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione collettiva delle
lotte che in ogni dove danno corpo al mondo nuovo che vogliamo e che
stiamo già costruendo, nel conflitto e nell’autogestione. Non lo è stato.
Ci saranno altre occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia che
raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore della piazza
milanese non era lo specchio di lotte reali ma il loro sostituto. Lo
diciamo con l’umiltà di chi sa quanto sia arduo un percorso di lotta
radicale, un percorso che osi mantenere chiara all’orizzonte l’urgenza
dell’anarchia, l’urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati,
né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto ci interroga
tutti sull’efficacia del nostro agire, sulle prospettive di lotta.
Dobbiamo registrare un’assenza. Un’assenza pesante come un macigno,
un’assenza che abbiamo visto evocare in questi anni da tanti compagni e
compagne, intelligenti e generosi. Un’assenza che non possiamo ignorare.
Manca la proiezione rivoluzionaria, manca la tensione a credere possibile
un mondo realmente diverso da quello in cui siamo forzati a vivere. La
precarietà iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene
condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione ad un mondo
altro, senza una rottura quotidiana dell’ordine imposto, il sasso che
spezza il vetro, la molotov che brucia il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l’atterraggio: le lotte sui territori solo
occasionalmente riescono a coniugare radicalità e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva
costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché allergica ad ogni
forma di potere. E di contropotere.

La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, lo agiamo giorno
dopo giorno nei territori dove viviamo e che attraversiamo. E ne
conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito quest’anno: pochi
hanno scioperato, perché le reti di sostegno a chi lotta sono troppo
deboli, perché la divisione tra sfruttati ha aperto solchi profondi,
perché la rappresentazione di un altro futuro, come di un AlterExpo deve
ancora fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri
quartieri, facciamo un pezzo di strada insieme.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

www.anarresinfo.noblogs.org


Daniele Barbieri. Mormorò il Piave: bugie lunghe 100 anni

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Daniele Barbieri. Mormorò il Piave: bugie lunghe 100 anni

http://www.labottegadelbarbieri.org/mormoro-il-piave-bugie-lunghe-100-anni-1/


23 maggio 2015, Lanciano: No Ombrina

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su 23 maggio 2015, Lanciano: No Ombrina

23 maggio manifestazione ‪#‎noombrina‬ ‪#‎notriv‬ a Lanciano. Alcun* compagn* del Malatesta di Ancona e dell’Usi ait Marche in corteo nello spezzone anarchico e antifa. Più di 50000 persone hanno attraversato la città abruzzese contro le devastazioni e le speculazioni ambientali a difesa del territorio.

NOombrina


F.A.I. Milano. Expo: la lotta continua

Posted: Maggio 4th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su F.A.I. Milano. Expo: la lotta continua

Per uno sbocco rivoluzionario e libertario alla crisi imposta da Stato e Capitale

EXPO: LA LOTTA CONTINUA

“Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole da quindici anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta in mano, per chi è stato preso nel mucchio del riot cittadino, nei pressi di una vetrina infranta o di un auto in fiamme o, a posteriori, ne verrà riconosciuta la presenza attraverso analisi fotografiche e video. Chi ci sta lo sa.

A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse comuni, a chi ci fa morire di amianto, d’inquinamento, di discariche abusive, a chi ha un altro tipo di “mazzette” in mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi apparati repressivi (polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva altrettanto trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale, nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi e arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo.

A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini, sia del luogo che provenienti da varie parti del paese e d’Europa, ha animato le vie della città  percorrendo, in vario modo, i pochi chilometri di strade ‘concessi’ dalle Autorità locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L’obiettivo era quello di disvelare il reale significato di quel baraccone fieristico rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti hanno contribuito al disastro alimentare ed agricolo di paesi e di parti consistenti di interi continenti non possono ora presentarsi come paladini della lotta della fame nel mondo, del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro di che la terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare, di corruzione, di speculazione selvaggia che ha regnato su Expo e che regnerà sulle aree del sito alla conclusione dell’evento; di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul lavoro precario, gratuito e sulla pauperizzazione del paese.

Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare per il centro città, trasformata in una sorta di zona rossa, una sorta di provocazione in una giornata che è sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, in una città che ha visto negli anni lo svolgimento di grandi e partecipate May Day.

Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo di rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità che sul terreno della lotta a quel modello di società e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito assemblearmente dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni costruite sul consenso e sull’accordo. In testa più di duecento musicisti, appartenenti a bande di vari paesi d’Europa, reduci dalla cena serale d’accoglienza presso la sede della FAI di Milano curata dalla Banda degli Ottoni, a dare un segnale di festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No Muos, No Expo, la rete ‘Genuino clandestino’, quelli di lotta sul territorio e per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell’USB, lo spezzone rosso nero con lo striscione ‘Expropriamo Expo’, dietro cui sfilavano circa duecento compagni e compagne tra FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l’USI  striscione e Iniziativa Libertaria di Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse individualità. A seguire, e a chiudere il corteo, il SI.COBAS, il ‘Sindacato è un’altra cosa’, e infine vari partiti, da Rifondazione al PCL.

Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e reticolazioni semoventi, a chiusura delle varie possibilità d’accesso al centro città; anche se rimane ‘curioso’ il fatto di aver lasciato parcheggiare le auto lungo il percorso del corteo, così come il fatto che siano rimasti al loro posto i cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente vengono rimosse in previsione di cortei ‘caldi e vivaci’ come ci si aspettava che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica preventivamente criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni e sgomberi delle giornate immediatamente precedenti.

La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè si partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare lo stretto omonimo Corso, ma senza grossi problemi perchè il posizionamento dei vari spezzoni era stata concordato da tempo. Quello che non poteva essere concordato era il posizionamento di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva si potessero posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello che è successo è che queste realtà si sono posizionate all’interno degli spezzoni a loro più affini, soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è evidenziato un comportamento assolutamente refrattario al rispetto degli accordi presi precedentemente. Volontà politiche, sicuramente autoritarie e prevaricatrici, ed in/sofferenze sociali si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha cercato un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione con le forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati con i simboli del potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare un nesso unico, una regia unica, in quello che è successo sbaglierebbe.

Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le urla di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie ed i progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa mettere a fuoco è come il Primo maggio a Milano si sia messo in scena non tanto una replica di quanto già visto a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione di quello che le politiche di austerità, di impoverimento sociale, di rafforzamento autoritario, di restringimento degli spazi di espressione e di organizzazione, stanno producendo: una espressione, fluida, anche contraddittoria, di un malessere sociale ed esistenziale, che nel conflitto, nelle sue varie forme possibili, cerca uno sbocco.

Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati prima con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni urticanti (si dice più di 400) e con l’uso degli idranti, li ha respinti, per rivolgere poi la loro attenzione alle vetrine di banche, negozi di vario tipo, auto, pensiline dei mezzi pubblici, semafori, ecc., mischiando le banche, simboli classici del sistema di sfruttamento capitalistico con attività generiche (un barbiere, un ottico, un ortofrutta…). Insomma tanto lavoro per assicurazioni ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno già offerto rimborsi e organizzato manifestazioni: il 2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così lontano.

Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento dell’intera manifestazione è stato ovviamente molto alto – è stato avanzato anche il sospetto che alcuni all’interno di quello spezzone lavorassero per trasformare tutto il corteo in un terreno di scontro complessivo –  ma se così non è stato è grazie alla determinazione delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia mantenendo le posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi dei lacrimogeni e delle auto incendiate. In questo contesto non si può tacere delle tattiche poliziesche tese da una parte a contenere i danni tra i ‘suoi’ e dall’altra ad evitare che ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da ‘sporcare’ l’inaugurazione di Expo. Del ‘buon cuore’ ipocrita del Ministro degli Interni non sappiamo che farcene.

Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da fare.

La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale del paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe né fiato né sirene da suonare, la disoccupazione cresce e soprattutto quella giovanile, non c’è uno straccio di politica industriale all’orizzonte, le rappresentanze politiche più o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni sociali crescono così come cresce il controllo sociale fino a prefigurare scenari di militarizzazione sociale complessiva, leggi sempre più autoritarie e restrittive sono all’orizzonte sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni di piazza. Non ci vuole molto a capire che, in mancanza di una capacità politica rivoluzionaria in grado di costruire uno sbocco praticabile e condiviso alla situazione che stiamo vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la violenza acefala diventerà l’unica forma di espressione possibile. Esorcizzare quanto è successo non ci aiuta, il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo autoreferenziale men che meno. C’è da rimboccarsi le maniche, sempre più e sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell’autorganizzazione, del duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che sappia essere agente reale e concreto della trasformazione sociale.

Le compagne e i compagni della Federazione Anarchica Milanese


Primo Maggio. La loro coperta: nessuna libertà e la sicurezza di una cella

Posted: Aprile 30th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Primo Maggio. La loro coperta: nessuna libertà e la sicurezza di una cella
Una citazione. Nel film “Codice d’onore” il colonnello Jessep dei marines, interpretato da Jack Nicholson, viene portato alla sbarra, in tribunale, imputato per aver ordinato la esecuzione di un suo soldato.
Di fronte alle accuse che gli vengono mosse, risponde in questo modo:
“… viviamo in un mondo pieno di muri e quei muri devono essere sorvegliati da uomini col fucile… chi lo fa questo lavoro?
Io non ho né il tempo né la voglia di venire qui a spiegare me stesso a un uomo che passa la sua vita a dormire sotto la coperta di quella libertà che io gli fornisco. E poi contesta il modo in cui gliela fornisco!”.
Questo discorso ci offre gli spunti per qualche riflessione.
I muri da sorvegliare, e la coperta che ci è stata fornita, sotto alla quale dormire.
Che i muri da sorvegliare siano sempre di più dopo il crollo del muro più famoso, quello di Berlino, è evidente. Dalla Palestina al Messico al Mediterraneo, i confini che un sogno neanche tanto lontano voleva pensare liberi e aperti si sono chiusi a delimitare fortezze. C’è un dentro fatto di presunti diritti, e un fuori fatto di esasperazione e di milioni di condannati ad una sopravvivenza alla mercè di guerre, faide, speculazioni decise in pochi istanti da grandi gruppi finanziari internazionali. Decise a volte da logaritmi, scelte che per pochi significano enormi quantità di denaro, per tanti fame e miseria.
Una economia fatta di speculazione, sfruttamento di uomini e animali, devastazione dell’ambiente, richiede l’erigere continuo di paratie stagne capaci di dividere e contenere i conflitti per poterli gestire e controllare. Conflitti che a volte assumono la caratteristica di vera e propria guerra, altre volte a più bassa intensità assumono quella di contenimento del malessere sociale attraverso la repressione.
In ogni caso, parliamo di muri; muri da controllare, muri che per tornare alla citazione del film devono essere sorvegliati da uomini col fucile. Il sogno del mondo pacificato vagheggiato al termine della guerra fredda è drammaticamente fallito. Il mondo non solo non è pacificato, e dal medio oriente al mediterraneo passando per grandi aree dell’asia assistiamo ad immani carneficine che non risparmiano uomini e donne innocenti, massacrate in nome dello stato islamico o sotto la repressione del dittatore di turno.
E i muri non sono solo questi. La militarizzazione diffusa nella nostra società difende i muri dello sfruttamento, della intolleranza che alimenta i conflitti tra poveri, del razzismo e della paura in cui ci vogliono per giustificare quella coperta che da anni ormai, ammesso che per qualcuno ci sia mai stata, non c’è più.
Una coperta che altro non era che il sogno della classe media nato nel dopoguerra: un sogno fatto di piccole sicurezze, una coperta sotto alla quale avremmo dovuto dormire tranquilli, protetti e vigilati dagli “uomini col fucile”. Ma se anche in passato questo privilegio mai fosse stato goduto da qualcuno, di certo oggi non ne rimane che il ricordo o la nostalgia. La classe media del mondo occidentale sotto i colpi della crisi è scomparsa, tagliata da una forbice sempre più ampia a sancire la distanza fra pochi detentori del reddito e grandi masse a cui non rimane altro se non l’incubo della precarietà, della assenza di futuro per sé e per i propri figli, del continuo attacco alla propria dignità ad opera di amministratori al servizio dei grandi poteri finanziari. Un incubo che si svolge in un bagno di paure, alimentate ad arte dai mezzi di comunicazione, dove sempre nuovi nemici di ogni genere minacciano quei muri sempre più fragili, giustificando un apparato repressivo di controllo sempre più invasivo.
Ma di quale coperta stanno parlando, questi signori della guerra, della repressione? Chi l’ha mai vista, la coperta che pretendono di stendere e sotto a cui dovremmo dormire? Chi vede oggi quella libertà che dicono di fornirci? La libertà di scegliere se azzuffarsi sgomitando in una società senza solidarietà per sopravvivere o di sprofondare nel baratro dei reietti? La loro coperta non esiste, non c’è.
Poco fa non a caso abbiamo parlato di amministratori al servizio dei grandi poteri finanziari. Non a caso, amministratori: non politici. Di quale politica parlano questi signori? Qual è il futuro che hanno in mente per le prossime generazioni? Il futuro scritto dalla banca centrale europea, dal fondo monetario internazionale, dalle banche. E per eseguire i compiti prescritti da queste consorterie si definiscono “politici”. Ma siatene certi, non uno, non uno solo sarebbe in grado di dirvi quale mondo, quale società ha in mente per le prossime generazioni.
Mentre hanno ben in mente, ben chiaro, qual è il futuro del lavoro.
Disoccupazione giovanile altissima, la cassa integrazione aumentata vertiginosamente, tanti lavoratori e lavoratrici che fuggono all’estero per sopravvivere.
Allora propongono Grandi Opere, come la Tav, che richiedono investimenti di miliardi. Questi progetti sono presentati come soluzione per risolvere il problema della disoccupazione, in realtà sono solo l’ennesima occasione per fare affari sulla pelle dei lavoratori. Queste opere, invece di rispondere ai nostri bisogni, sono destinate a creare solo gigantesche speculazioni, favorire gruppi economici e di potere, creare consensi elettorali attorno ai partiti che promuovono politiche contrarie agli interessi dei lavoratori (cit. Tiziano Antonelli).
Quantomeno singolari, quando non spassose, le periodiche ondate di entusiasmo che si sollevano intorno a personaggi del mondo istituzionale o sindacale, fondatori e ri-fondatori di partiti e movimenti che vaneggiano un futuro sostanzialmente di ridotto sfruttamento e minor ladrocinio da parte della classe al potere. E’ commovente la partecipazione che questi salvatori buoni per una stagione riescono a sollevare per qualche mese in tanti e tante. Sotto i fondali teatrali che cambiano, in realtà, tutto quel che si muove è il tentativo di mercanteggiare con la classe padronale, che in passato aveva qualche interesse a venire a patti con i lavoratori, una sicurezza:
quella di una cella ben conosciuta. Per questa sicurezza, vogliono dar ad intendere che occorre difendere conseguentemente le sbarre che finora li hanno tenuti prigionieri.
Ma la classe padronale, che ha diviso e smembrato produzioni, dislocato per il mondo le sedi, depauperato e disperso diritti che erano stati conquistati in anni e anni di lotte, di venire a patti non ne ha più nessuna necessità.
Per questo ci sembrano risibili queste periodiche chiamate alle armi da parte del salvatore di turno, che abbia la faccia pulita o meno. La fuga dalla fiducia nelle istituzioni è iniziata da un pezzo, i numeri dell’astensionismo stanno lì a testimoniarlo. Il lavoro di questi pompieri, da Grillo a Landini, in ultimo non è volto ad altro se non a cercare di mantenere sulla barca dello Stato, agitando le bandiere della difesa della Costituzione e della lotta alla corruzione, chi avrebbe tutte le ragioni per rivoltarsi contro di esso.
Se non è possibile costruire un futuro senza prima sognarlo, crediamo fermamente e pensiamo che oggi più che mai si debba tornare a parlare di trasformazione sociale. La difesa del lavoro e dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici non può limitarsi alla contrattazione e alla lotta economica, che pure sono aspetti necessari e importanti. Senza la prospettiva di una trasformazione sociale, che per noi anarchici significa un mondo di uomini e donne liberi ed eguali nella solidarietà e nella giustizia sociale, nessuna rivendicazione può avere respiro. A maggior ragione oggi, quando quella presunta coperta di libertà e sicurezza di cui tanto ci hanno parlato ha ormai mostrato che cosa realmente è: nessuna libertà e la sicurezza di una cella.
Noi, di questa sicurezza non sappiamo cosa farcene.
 
Gruppo Libertad – FAI Federazione Anarchica Italiana, Rimini

Le origini anarchiche del Primo Maggio

Posted: Aprile 30th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Le origini anarchiche del Primo Maggio

Le origini anarchiche del Primo Maggio


Oggi e’ semplicemente una festa come le altre. Non molta gente sa perchè il primo maggio e’ diventato il giorno internazionale dei lavoratori e perche’ noi dovremmo celebrarlo. Un pezzo in piu’ della nostra storia che ci e’ stato nascosto.
Tutto e’ cominciato piu’ di un secolo fa quando la Federazione Americana del Lavoro ha adottato una risoluzione storica che asseriva: ” otto ore costituiranno la durata legale della giornata di lavoro dal 1 maggio 1886 “.
Nei mesi precedenti a questa data migliaia di operai avevano combattuto per la giornata piu’ corta. Esperti e non qualificato, neri e bianchi, uomini e donne, nativi ed immigrati, tutti erano stati coinvolti nella causa.

CHICAGO

Nella sola Chicago in 400.000 erano in sciopero. Un giornale di quella città’ riportava che «nessun fumo usciva dagli alti camini delle fabbriche e dei laminatoi, e le cose avevano assunto l’apparenza di un giorno di festa».
Questo era il centro principale delle agitazioni, e qui gli anarchici erano all’avanguardia del movimento dei lavoratori. Quando il primo maggio del 1886 gli scioperi per le otto ore paralizzarono la città’, una meta’ della manodopera della ditta McCormick usci’dalla fabbrica.
Due giorni dopo parteciparono ad una assemblea di massa seimila lavoratori del legno, anch’essi in sciopero.
I lavoratori stavano ascoltando un discorso dell’anarchico August Spies a cui era stato chiesto di organizzare la riunione dal’Unione Centrale del Lavoro. Mentre Spies stava parlando, invitando i lavoratori a rimanere uniti e a non cedere ai capi, i crumiri stavano cominciando a lasciare la McCormick.
Gli operai, aiutati dai lavoratori del legname, marciarono lungo la strada e spinsero i crumiri nuovamente dentro la fabbrica.
All’improvviso giunsero 200 poliziotti e senza alcun preavviso attaccarono la folla con manganelli e revolver. Uccisero uno scioperante, ne ferirono un numero indeterminato di cui cinque / sei seriamente.
Oltraggiato dai brutali assalti di cui era stato testimone, Spies ando’ agli uffici dell’Arbeiter Zeitung (un quotidiano anarchico per gli operai immigrati tedeschi) e li’ compose una circolare invitante i lavoratori di Chicago a partecipare ad un meeting di protesta per la notte seguente.
Il meeting di protesta ebbe luogo in Haymarket Square e fu tenuto da Spies e da altri due attivisti anarchici del movimento sindacale, Albert Parsons e Samuel Fielden.

L’ATTACCO DELLA POLIZIA

Durante i discorsi la folla rimase tranquilla.
Il sindaco Carter Harrison, che era presente dall’inizio della riunione, non aveva ravvisato nulla che richiedesse l’intervento della polizia.
Avviso’ di questo il capitano della polizia John Bonfield e suggeri’ che il grosso delle forze di polizia che attendevano alla Station House fossero mandate a casa.
Erano quasi le dieci di sera quando Fielden stava per dichiarare chiusa la riunione.
Stava piovendo molto forte e solo duecento persone circa erano rimaste nella piazza.
Improvvisamente una colonna di polizia di 180 uomini guidata da Bonfield entro’ nella piazza ed ordino’ alla gente di disperdersi immediatamente. Fielden protesto’: «Siamo pacifici».

LA BOMBA

In quel momento una bomba venne gettata fra le file della polizia.
Una persona fu uccisa, 70 rimasero ferite di cui sei in maniera grave.
La polizia apri’ il fuoco sulla folla.
Quante persone siano state ferite o uccise dalle pallottole della polizia non e’ mai stato accertato esattamente.

CHICAGO NEL TERRORE

La stampa e i governanti chiedevano vendetta, insistendo che «la bomba era un lavoro di socialisti e anarchici».
Furono perquisiti luoghi di riunione, uffici del sindacato, stamperie e case private.
Tutti coloro che erano conosciuti come socialisti ed anarchici vennero portati dentro.
Anche molte persone ignare del significato di socialismo e anarchismo vennero arrestate e torturate.
«Prima le perquisizioni, poi il rispetto dei diritti di legge»: questa fu l’asserzione pubblica di Julius Grinnell, il procuratore di Stato.

IL PROCESSO

Otto uomini furono processati con l’accusa di essere assassini.
Questi erano: Spies, Fielden, Parsons e cinque altri anarchici coinvolti nel movimento dei lavoratori: Adolph Fischer, George Engel, Michael Schwab, Louis Lingg, Oscar Neebe.
Il processo inizio’ il 21 giugno 1886 nella Corte di Cooke County.
I candidati della giuria non furono scelti nel modo usuale, cioe’ ad estrazione. In questo caso il procuratore Grinnell nomino’ un apposito funzionario per selezionare i candidati.
Alla difesa non fu consentito di presentare le prove che questo funzionario speciale aveva pubblicamente dichiarato: «sto gestendo questo caso e so di cosa parlo. Questi imputati stanno sicuramente andando alla forca».

LA GIURIA

La composizione finale della giuria era chiaramente di parte, essendo essa costituita da uomini d’affari, loro impiegati ed un parente di uno dei poliziotti morti.
Nessuna prova venne presentata dallo Stato che uno qualunque degli otto uomini davanti alla corte avesse tirato la bomba, e che fosse in qualche modo connesso col suo lancio o avesse persino approvato tali atti.
In effetti, solo tre degli otto uomini erano stati in Haymarket Square quella sera.
Nessuna prova venne offerta che uno qualunque degli oratori avesse incitato alla violenza.
Persino il sindaco Harrison nel suo intervento al processo descrisse i discorsi come «addomesticanti».
Nessuna prova venne offerta che qualunque violenza fosse prevista. In effetti, Parsons aveva portato i suoi due figli piccoli al comizio.

SENTENZA

Che gli otto fossero a processo per il loro credo anarchico e per le loro attivita’ nel sindacato fu chiaro fin dall’inizio. Il processo si concluse cosi’ com’era cominciato, com’e’ testimoniato dalle parole finali del discorso alla giuria di Grinnell:
«La legge e’ sotto processo. L’anarchia e’ sotto processo. Questi uomini sono stati scelti, selezionati dal Gran Giuri’ e indicati perche’ essi erano capi. Non sono piu’ colpevoli delle migliaia che li hanno seguiti. Signori della giuria, condannate questi uomini, fate di loro degli esempi, impiccateli e salvate le nostre istituzioni, la nostra societa’.».
Il 19 agosto sette degli imputati furono condannati a morte e Neebe a 15 anni di prigione. Dopo una massiccia campagna internazionale per la loro liberazione, lo Stato commuto’ le sentenze di Schwabb e Fielden nella prigione a vita. Lingg truffo’ il boia suicidandosi nella sua cella il giorno prima dell’esecuzione. L’11 di novembre 1887 Parsons, Engel, Spies e Fischer furono impiccati.

PERDONO

Seicentomila lavoratori parteciparono al loro funerale. La campagna per liberare Neebe, Schwabb e Fielden continuo’. Il 26 giugno 1893 il governatore Altgeld li libero’. Egli chiari’ che non stava concedendo il perdono perche’ pensava che gli uomini avessero sofferto abbastanza, ma perche’ essi erano innocenti del crimine per il quale erano stati processati. Essi e gli uomini impiccati erano stati vittime di «isteria, giurie impacchettate e un giudice di parte».
Le autorita’ ai tempi del processo credettero che questa persecuzione interrompesse il movimento per le otto ore, invece in seguito emerse che la bomba poteva essere stata tirata da un agente di polizia che lavorava per il capitano Bonfield. Una cospirazione che coinvolgeva alcuni capi per screditare il movimento dei lavoratori.
Quando Spies parlo’ alla corte dopo essere stato condannato a morte, egli affermo’ di credere che questa cospirazione non avrebbe avuto successo. «Se pensate che impiccandoci potete fermare il movimento dei lavoratori, il movimento da cui milioni e milioni di persone che lavorano nella miseria vogliono e si attendono salvezza, allora impiccateci! Qui voi spegnete una scintilla, ma dovunque intorno a voi le fiamme divampano. E’ un fuoco sotterraneo: non potete spegnerlo.».
E questo, il primo maggio, rappresentò per molti decenni successivi: una scadenza annuale comune a tutto il movimento dei lavoratori, in ogni parte del mondo.

UNA GIORNATA DI LOTTA E DI MEMORIA STORICA

E molto spesso, fu proprio da questa giornata che la mobilitazione di massa dei lavoratori segnò momenti storici particolari, durante le due guerre mondiali, durante la resistenza e l’antifascismo.
Oggi parlarne ha un senso non solo per conservarne la memoria storica, ma per il contenuto, il significato che essa rappresenta in termini di coscienza di classe e di lotta degli sfruttati dove, in tema di orario di lavoro, diritti, salari, emancipazione, cambiamento della società liberista imperante, c’è molto da fare, non solo per riconquistare diritti e dignità rubati, ma per gettare sullo scenario dello scontro di classe in atto, gestito solo dal padronato attualmente, la forza e l’utopia delle masse lavoratrici.
Alan MacSimoin, (originariamente pubblicato su “Workers Solidarity”, 19, e dal sito web del Centro Studi Libertari Jesi. The anarchist origins of May Day )

Un lungo 25 aprile – Storia della resistenza libertaria

Posted: Aprile 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Un lungo 25 aprile – Storia della resistenza libertaria

centro studi libertari / archivio g.pinelli

Cari compagni e cari sostenitori,
in occasione del 70° anniversario del 25 aprile vi annunciamo il caricamento delle interviste inedite ai partigiani e alle partigiane anarchiche sul nostro canale youtube. 

La Resistenza anarchica
versione integrale delle testimonianze partigiane raccolte nel 1995 da Ferro Piludu e Lucilla Salimei in Romagna (Cesare Fuochi, Andrea Gaddoni, Spartaco Borghi), inToscana (Minos Gori, Ugo Mazzucchelli, Carlo Venturotti, Teresa Venturotti), inPiemonte (Giuseppe Ruzza) e in Lombardia (Dante Di Gaetano, Alberto Moroni, Luigi Brignoli, Marilena Dossena, vedova di Michele Germinal Concordia).
il centro studi libertari / archivio g.pinelli

clicca qua per guardare le video interviste

https://www.youtube.com/playlist?list=PLgsM796JQvn2reeDsyHt9pCBD0holvfNe

 

Un lungo 25 aprile storia della resistenza libertaria
Si avvicina il 25 aprile. Ma forse non c’è soltanto un 25 aprile, ma tanti 25 aprile. Semplificando, si potrebbe dire che c’è infatti quello di chi voleva in primo luogo garantire la continuità delle istituzioni statali, quello di chi sognava un’Italia schierata con Stalin e quello di coloro che di una cosa erano sicuri: che i ponti con quello che era stato dovevano essere tagliati di netto. Tra questi ultimi c’erano senza dubbio gli anarchici.

Ma per gli anarchici il 25 aprile era iniziato più di vent’anni prima.

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