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Bologna. Venerdi 5 Giugno: Concerto di e con Francesco Benozzo & Fabio Bonvicini “Migranti, Disertori e Cantastorie”

Posted: Maggio 29th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Bologna. Venerdi 5 Giugno: Concerto di e con Francesco Benozzo & Fabio Bonvicini “Migranti, Disertori e Cantastorie”

Circolo Anarchico Berneri, Bologna

Venerdi 5 Giugno: Concerto di e con Francesco Benozzo & Fabio Bonvicini “Migranti, Disertori e Cantastorie”orari: 19 aperitivo libertario
20.30 inizio concertoMIGRANTI, DISERTORI E CANTASTORIE
Il canto popolare e la Grande Guerradi e con Francesco Benozzo & Fabio Bonvicini

Con la sensibilità schietta e di lunga durata che gli è propria, il canto popolare ha interpretato il terribile periodo della Grande Guerra in modi che hanno saputo andare al di là delle analisi dei cronisti e delle sistemazioni degli storici. La partenza, il distacco, la vita in trincea, la nostalgia dei luoghi e la ribellione al mondo delle armi diventano nel canto tradizionale modi di espressione e aneliti che hanno la capacità di proporre uno sguardo sul mondo che rifiuta di entrare nelle logiche limitate di politica e anti-politica, di interventismo e anti-interventismo. È uno sguardo degli uomini sugli uomini, da cui emerge l’amore per la vita attraverso i dettagli, e la paura della morte attraverso i volti, le mani e i gesti. Lontani anche dal più noto filone di canzoni di coscritti, alcuni di questi canti restituiscono oggi, nel centenario della Grande Guerra, l’immagine toccante di esseri umani che sorridono, piangono e guardano increduli o sarcastici al mondo c he sembra sovrastarli, sempre con la coscienza di chi si sente parte attiva di una tradizione ininterrotta e millenaria che continua a proporre modelli di riferimento esemplari e riconoscibili.

Fuoco e mitragliatirci / Il Valzer dei disertori
L’eccidio di Ancona
Guarda là sulla pianura
La banda Adani-Caprari
Sento il fischio del vapore /Buy-a-Broom
La figlia soldato
Il disertore
Nostalgia
Gorizia tu sei maledetta
La ruvina
Il 29 luglio (versione libretaria)

Al concerto è legato il cd Ponte del Diavolo, prodotto da RadiciMusic di Arezzo nel 2014.

Francesco Benozzo canto, arpa celtica, arpa bardica
Fabio Bonvicini canto, organetto, piffero, flauti, ocarina, piva, percussioni

Francesco Benozzo, menzione speciale della critica ai Folk Awards di Edimburgo nel 2007 e finalista al Premio Tenco 2009, ha all’attivo sei album come cantante e arpista. Nel 2013 Ha rappresentato la musica italiana al festival Folk di Barcellona.

Fabio Bonvicini è uno dei più attivi protagonisti della rinascita della tradizione musicale emiliana. Ha suonato e suona in numerosi gruppi, molti dei quali da lui fondati, tra i quali Pivaritrio, Compagnia dell’asino che porta la croce, Suonabanda, Pivenelsacco.Nel 2013 Benozzo e Bonvicini hanno realizzato insieme un album dedicato al canto libertario (Libertà l’è morta), prodotto in Danimarca dall’etichetta Tutl Nel Cd è contenuto il brano “Codini e Spadini” che ha vinto il “Premio Giovanna Daffini” per la musica nel 2013.Contatti e infoFrancesco Benozzo info@francescobenozzo.com +39 3495518821 www.francescobenozzo.com

Fabio Bonvicini fabonvicini@gmail.com +39 3463024226


Reggio Emilia. Sabato 30 maggio alle Cucine del popolo per parlare di Expo

Posted: Maggio 29th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Reggio Emilia. Sabato 30 maggio alle Cucine del popolo per parlare di Expo
No Expo: un convegno con Capatti, Anselmi e Coniglione

no expo cucine del popolo

Sabato 30 maggio

Convegno No Expo

h 16.30 alla scoperta della vicenda Expo 2015 con Alberto Capatti, Guido Anselmi e Lorenzo Coniglione

h 20.30 cena sociale e conviviale

h 22 blues e poesia con Oracolo King, C.B. e Paul Aster

La relazione tenuta da Alberto Capatti, docente universitario e autore di libri sulla storia della cucina italiana, dal titolo “Cibo senza cultura” sarà incentrata sull’estrema ambiguità culturale dell'”evento Expo” che pretende di tenere insieme piccoli produttori biologici con la grande industria alimentare; la relazione di Guido Anselmi, Phd di sociologia economica presso l’Università Bicocca, dal titolo “Expo e il blocco edilizio contemporaneo” sarà incentrata sulla storia della speculazione dietro l’Expo e sulla composizione del blocco di potere che agisce sulle decisioni delle grandi opere e dei grandi eventi; infine Lorenzo Coniglione, pubblicista e redattore di Umanità Nova, interverrà in merito alle mobilitazioni NoExpo e al lavoro di controinformazione necessario per smascherare le dinamiche e le “narrazioni tossiche” a riguardo dei grandi eventi e delle opposizioni agli stessi.

Circolo Arci Cucine del Popolo
via Beethoven 78/e – Massenzatico (RE)

info 340 7693229  ||  facebook: Centro Studi Cucine del Popolo


Centenario Prima guerra mondiale: noi ricordiamo i disertori

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Centenario Prima guerra mondiale: noi ricordiamo i disertori

Con i disertori

Il 24 maggio 2015, in occasione della commemorazione di Stato del centenario della Prima guerra mondiale, noi ricordiamo quanti, di ogni nazione e in ogni tempo, durante ogni conflitto rifiutarono di prendere le armi per uccidere, in nome di interessi e ideali che non gli appartenevano, quanti avevano la sola colpa di essere nati dall’altro lato di una linea o di parlare una lingua diversa dalla loro. E nello specifico della Prima guerra mondiale, rifiutandosi con il loro no di andare a costituire la “carne da macello” delle “spallate” agli austriaci che gli ufficiali andavano ordinando, centinaia di contadini, braccianti, operai vennero fucilati, condannati, imprigionati.

Noi ricordiamo tutti i disertori.

disertore1

In questa occasione, lo facciamo con un piccolo estratto dal testo di Marco Rossi, “Gli ammutinati delle trincee”.

Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria dal piombo dalle linee retrostanti o da quello dei Carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale.

(Circolare n. 3525, 28 settembre 1915).

… Il Codice Penale Militare in vigore al momento in cui lo Stato italiano entrò nel conflitto mondiale era ancora quello del 1869 che, peraltro, ricalcava quello del 1840; le sue norme avevano severamente segnato le guerre risorgimentali, le campagne antibrigantaggio e le imprese coloniali. In base a tale arretrato dettato giuridico, reati quali il tradimento, la codardia, la violata consegna o l’ammutinamento erano indistintamente quanto sbrigativamente puniti con la fucilazione, previa degradazione, così come attestano migliaia di di sentenze dei tribunali militari.

Impressionanti i dati riguardanti tale attività: 870.000 denunce, delle quali 470.000 per renitenza; 350.000 processi sommari celebrati; circa 170.000 militari condannati, di cui 111.605 per diserzione; 220.000 condanne a pene detentive, tra le quali 15.000 all’ergastolo; 4.028 condanne a morte (in gran parte in contumacia), delle quali 750 eseguite. Un numero quest’ultimo assai superiore a quello delle condanne capitali eseguite in Francia (600), Gran Bretagna (330) e Germania (meno di 50), nonostante la più lunga partecipazione al conflitto e il maggior numero di soldati impegnati dai rispettivi eserciti.

Almeno 130.126 condanne detentive vennero invece sospese e i rei furono rinviati al fronte per impedire che questi si sottraessero al loro dovere stando in carcere; in tal modo, alla fine del conflitto, la galera attendeva i superstiti, salvo essersi riscattati attraverso buona condotta, promozioni o decorazioni sul campo.

disertore

Non meno significativa risulta l’estrazione sociale dei condannati, desumibile dalle stesse sentenze che riportano i loro mestieri da civili: braccianti, carrettieri, contadini, falegnami, muratori, camerieri, scalpellini, carbonai, coloni, calzolai, marinai, meccanici, fornaciai, lattonieri, macchinisti, operai, agricoltori, impiegati, studenti, minatori, solfatari, mulattieri, lattai, fabbri, facchini, marmisti, parrucchieri, fonditori, stagnini, ortolani, mugnai, macellai, tessitori, ecc, con larga prevalenza dei lavoratori della terra, peraltro rispondente a quel 58 % (circa 2.600.000) che costituiva la struttura portante dell’esercito.

disertore3

Ancora minore indulgenza si registra nei confronti degli incriminati appartenenti a categorie marginali, quali vagabondi o mendicanti, come un presunto disertore di Palermo fucilato il 12 maggio 1917, dopo che una sentenza del Tribunale del XX Corpo d’armata l’aveva definito “pericoloso per la società e per l’esercito”.

A queste sentenze si aggiunsero innumerevoli circolari, ordini di servizio e disposizioni che non solo legittimavano ma incitavano all’utilizzo sistematico delle esecuzioni extra-giudiziali da parte degli ufficiali nei confronti di atti anche irrilevanti di disobbedienza dei subordinati, non solo “in faccia al nemico” ma pure genericamente “in presenza del nemico”; in una circolare , recante la firma di Cadorna, si poteva leggere che “il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi”.

… dalle più attente stime risultano essere non meno di 300 (ben più delle 107 ammesse dal Ministero della guerra) le esecuzioni sommarie accertate ma, secondo alcune fonti, ammonterebbero a 5.000 i “senza fucile” trucidati per sbandamento a seguito della disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917.

disertore10

Nelle confuse settimane della ritirata dall’Isonzo al Piave, quando si contarono circa 50.000 disertori e oltre 300.000 sbandati, a distinguersi per feroce zelo fu il generale Andrea Graziani, nominato Ispettore generale del movimento di sgombero, che si spostava incessantemente tra Piave e Brenta “portando con sé su una camionetta i carabinieri per le fucilazioni”. Talvolta indossando la divisa dell’Arma e armato di moschetto e rivoltella fu protagonista di una accanita caccia all’uomo, lasciandosi dietro una funesta scia di manifesti terroristici affissi per le contrade in cui venivano rese note le fucilazioni eseguite, anche per futili motivi; in alcuni casi infierì persino sui malcapitati, percuotendoli con la sciabola o un bastone, prima che fossero messi al muro.

… Pur essendo stato al centro di denunce e inchieste parlamentari sulla sua condotta, per cui era stato in precedenza decorato, Graziani rimase impunito e, durante il regime fascista , divenne Luogotenente generale della Milizia, sino a quando nel febbraio 1931 fu rinvenuto cadavere lungo la linea ferroviaria Bologna – Firenze, in circostanze che misero in dubbio l’ipotesi dell’incidente.

 


Libri. Eleuthera, LA VITA ALL’OMBRA DEL JOLLY ROGER

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Libri. Eleuthera, LA VITA ALL’OMBRA DEL JOLLY ROGER
Kuhn
LA VITA ALL’OMBRA DEL JOLLY ROGER
I pirati dell’epoca d’oro tra leggenda e realtà

2015
288 pp.
€ 16,00

http://www.eleuthera.it/scheda_libro.php?idlib=386&utm_source=NEWSLETTER&utm_campaign=e0bf9f5042-novit%C3%A0+el%C3%A8uthera+maggio&utm_medium=email&utm_term=0_e34193198c-e0bf9f5042-150573997

Innalzando il jolly roger, la bandiera nera con il teschio e le tibie incrociate, si dichiaravano nemici di tutte le nazioni, ma la loro violenza si accompagnava spesso a un’affermazione dei diritti umani.
Gianni Vattimo


L’enorme attenzione che i pirati hanno ricevuto negli ultimi anni non si limita al grande schermo o al reparto giocattoli dei grandi magazzini. Questi “malfattori” di trecento anni fa hanno impregnato a fondo l’immaginario contemporaneo, riuscendo a creare una mitologia tuttora vitale. Nonostante la loro epoca d’oro sia collocabile tra il 1690 e il 1725, ancora oggi studiosi, scrittori, sceneggiatori e appassionati si dividono in accanite diatribe tra chi vede in loro degli audaci ribelli sociali, capaci di realizzare le prime forme di democrazia diretta, e chi invece li considera dei briganti crudeli e sanguinari. E in effetti i pirati furono entrambe le cose: fuorilegge pronti a depredare chiunque incrociasse la loro rotta e uomini liberi che rifiutavano una società “legittima” oppressiva e altrettanto violenta. Passando da Nietzsche a Foucault, da Che Guevara a Hobsbawm, da Sahlins a Clastres, l’autore ci racconta la storia non convenzionale di queste comunità nomadi, descrivendo – sempre in bilico tra leggenda e realtà – la vita quotidiana all’ombra della bandiera nera pirata.

Il diavolo si porti voi e la vostra coscienza, io sono un principe sovrano, con lo stesso diritto di far guerra al mondo intero che ha un monarca con cento navi in mare e un esercito di centomila uomini in campo; e me lo dice la mia coscienza; ma è inutile discutere con mocciosi come voi, che si lasciano prendere a calci dai superiori per tutto il ponte, e che prestano fede a un ruffiano di prete, che è una palla di sego che non crede né pratica ciò che mette in testa agli imbecilli cui tiene la predica”.
Saul Bellamy, capitano pirata

Federazione Anarchica Torinese: No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Federazione Anarchica Torinese: No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

No Expo. Il conflitto e la sua rappresentazione

L’agire rivoluzionario, nell’attraversare un percorso di trasformazione
radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, anche
narrazione.
La diffusione e l’accessibilità pressoché universale di strumenti di
comunicazione ha enormemente amplificato il carattere discorsivo
dell’azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. Su questo
confine si giocano partite di egemonia, che spesso sfuggono all’analisi e
al controllo di chi partecipa alle iniziative, pur avendo contribuito a
costruirle.

Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su una faglia
solida ma prismatica, dove si intrecciano più piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava qualche amante del
“realismo”, fanno la loro partita e contribuiscono a costruire una
narrazione difficile da ignorare, perché spesso costituisce e costruisce
una parte dell’opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – leggete l’ultimo
editoriale su infoaut – pur rivendicando il “riot”, lo avrebbe preferito
più “civile”, più forte nel proporre una comunicazione dove l’atto
distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. Pur
condividendo l’aspirazione ad una comunicazione che sappia farsi opinione
più allargata, dubitiamo che i media siano governabili dai movimenti.
Quest’analisi della giornata mette in scena una rappresentazione della
piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, ben al di là
dello spazio di una may day milanese, in cui le anime scisse della post
autonomia, si sono contese il monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre il gioco ma
non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce che il concetto sensato
della chiarezza degli obiettivi, venga delegato allo specchio dei media.
Ci permettiamo di immaginare che se il “riot” avesse colpito solo banche e
auto di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.

Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti la propria
narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina infranta, una scritta
su un negozio aperto il Primo Maggio, allusioni poetiche ad una narrazione
rivolta ai propri affini, che raramente riesce a farsi opinione condivisa
al di fuori di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.

Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, perché
l’epoca in cui la diffusione aurorale della stampa quotidiana produceva
“opinione pubblica” è tramontata e i piani su cui si costruiscono le
narrazioni condivise sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre
comunicanti.

La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è scesa in strada
per ripulire la città è frutto della proposizione della tematica del bene
comune in chiave nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri
del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione e saccheggio
rappresentati dal modello Expo. L’appannata amministrazione Pisapia ha
recuperato punti, l’Expo probabilmente meno.

Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media pullulavano
di complottisti che ripetevano la noiosa litania sugli infiltrati nero
vestiti: fortunatamente in meno di 24 ore questo argomento buono per tutte
le stagioni è stato riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente
comparire di queste tesi afferisce all’incapacità di confrontarsi con
pratiche eccedenti la normalità: se c’è la lunga mano della questura tutto
va a suo posto, non c’è lacerazione, non c’è divaricazione, non c’è
conflitto, non c’è divisione tra buoni e cattivi, perché i “cattivi” sono
ridotti al rango di burattini.
È un’interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente dibattito,
niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi sono finti. Una favola
triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull’immaginario.

La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee che hanno costruito
le giornate No Expo, il cui punto di arrivo e ri-partenza avrebbe dovuto
essere il Primo Maggio milanese.
Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una may day che
mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione plurale dove
l’agire comunicativo fosse condiviso da tutte le anime del corteo.
Una scommessa che il “riot” ha fatto saltare, svuotando di senso la
giornata dei “blocchi” del 2 maggio e portando alla cancellazione
dell’assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione corale
non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha tentato la
quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c’era un’aspettativa non
detta ma sussurrata di bocca in bocca: il primo maggio a Milano il “riot”
avrebbe riempito la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.

Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo scritto in inglese
perché se avessimo scritto sommossa, o rivolta sarebbe stata chiara a
tutti la distanza tra le parole e le cose.

“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell’immagine stereotipa che
si riproduce di piazza in piazza, di continente in continente. Ragazzi
mascherati, lacrimogeni, polizia, auto in fiamme e banche sfondate. Roba
che ritorna a tutte le latitudini, tanto che qualcuno sta teorizzando il
ritorno delle rivolte, senza accorgersi, che non hanno mai smesso di
esserci.
L’immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua del
conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è innegabilmente
seduttiva per tanti, perché narra l’immediatezza di un agire che non
rimanda ad altro, che si concreta nel subito, che ha in se il proprio
fine: comincia e finisce con la vetrina infranta.
A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, un gelataio
spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia di volontari
lavoravano per l’illusione di salire il mezzo scalino che divide i
sommersi dai salvati.

La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere e del
capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, ha una logica
debole, vista l’incomparabile distanza tra le infinite macerie del
capitalismo e i vetri infranti nel centro di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà c’è chi ha provato
a giocare il vecchio gioco dell’egemonia. Ma è una tela dalla trama
logora, che gioca sporco con i propri stessi compagni di “riot”, perché
nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della spontaneità. Una
spontaneità che non escludiamo si sia data in qualche occasionale processo
imitativo ma è improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c’è stata una sommossa ma un settore della piazza che per
un’ora e mezza ha messo in scena la sommossa.
Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a chi è stato
arrestato, a chi potrebbe perdere la propria libertà per anni. La vendetta
dello Stato affina i propri strumenti e sarà segno della maturità dei
movimenti che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia
sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo la rete delle
prossime operazioni repressive.

Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti di
esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di un corteo
conflittuale e, insieme, comunicativo.

Eravamo in coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino in
fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione collettiva delle
lotte che in ogni dove danno corpo al mondo nuovo che vogliamo e che
stiamo già costruendo, nel conflitto e nell’autogestione. Non lo è stato.
Ci saranno altre occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia che
raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore della piazza
milanese non era lo specchio di lotte reali ma il loro sostituto. Lo
diciamo con l’umiltà di chi sa quanto sia arduo un percorso di lotta
radicale, un percorso che osi mantenere chiara all’orizzonte l’urgenza
dell’anarchia, l’urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati,
né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto ci interroga
tutti sull’efficacia del nostro agire, sulle prospettive di lotta.
Dobbiamo registrare un’assenza. Un’assenza pesante come un macigno,
un’assenza che abbiamo visto evocare in questi anni da tanti compagni e
compagne, intelligenti e generosi. Un’assenza che non possiamo ignorare.
Manca la proiezione rivoluzionaria, manca la tensione a credere possibile
un mondo realmente diverso da quello in cui siamo forzati a vivere. La
precarietà iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene
condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione ad un mondo
altro, senza una rottura quotidiana dell’ordine imposto, il sasso che
spezza il vetro, la molotov che brucia il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l’atterraggio: le lotte sui territori solo
occasionalmente riescono a coniugare radicalità e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva
costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché allergica ad ogni
forma di potere. E di contropotere.

La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, lo agiamo giorno
dopo giorno nei territori dove viviamo e che attraversiamo. E ne
conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito quest’anno: pochi
hanno scioperato, perché le reti di sostegno a chi lotta sono troppo
deboli, perché la divisione tra sfruttati ha aperto solchi profondi,
perché la rappresentazione di un altro futuro, come di un AlterExpo deve
ancora fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri
quartieri, facciamo un pezzo di strada insieme.

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese

www.anarresinfo.noblogs.org


Daniele Barbieri. Mormorò il Piave: bugie lunghe 100 anni

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Daniele Barbieri. Mormorò il Piave: bugie lunghe 100 anni

http://www.labottegadelbarbieri.org/mormoro-il-piave-bugie-lunghe-100-anni-1/


23 maggio 2015, Lanciano: No Ombrina

Posted: Maggio 24th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su 23 maggio 2015, Lanciano: No Ombrina

23 maggio manifestazione ‪#‎noombrina‬ ‪#‎notriv‬ a Lanciano. Alcun* compagn* del Malatesta di Ancona e dell’Usi ait Marche in corteo nello spezzone anarchico e antifa. Più di 50000 persone hanno attraversato la città abruzzese contro le devastazioni e le speculazioni ambientali a difesa del territorio.

NOombrina


F.A.I. Milano. Expo: la lotta continua

Posted: Maggio 4th, 2015 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su F.A.I. Milano. Expo: la lotta continua

Per uno sbocco rivoluzionario e libertario alla crisi imposta da Stato e Capitale

EXPO: LA LOTTA CONTINUA

“Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole da quindici anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta in mano, per chi è stato preso nel mucchio del riot cittadino, nei pressi di una vetrina infranta o di un auto in fiamme o, a posteriori, ne verrà riconosciuta la presenza attraverso analisi fotografiche e video. Chi ci sta lo sa.

A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse comuni, a chi ci fa morire di amianto, d’inquinamento, di discariche abusive, a chi ha un altro tipo di “mazzette” in mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi apparati repressivi (polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva altrettanto trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale, nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi e arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo.

A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini, sia del luogo che provenienti da varie parti del paese e d’Europa, ha animato le vie della città  percorrendo, in vario modo, i pochi chilometri di strade ‘concessi’ dalle Autorità locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L’obiettivo era quello di disvelare il reale significato di quel baraccone fieristico rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti hanno contribuito al disastro alimentare ed agricolo di paesi e di parti consistenti di interi continenti non possono ora presentarsi come paladini della lotta della fame nel mondo, del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro di che la terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare, di corruzione, di speculazione selvaggia che ha regnato su Expo e che regnerà sulle aree del sito alla conclusione dell’evento; di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul lavoro precario, gratuito e sulla pauperizzazione del paese.

Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare per il centro città, trasformata in una sorta di zona rossa, una sorta di provocazione in una giornata che è sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla schiavitù del lavoro salariato, in una città che ha visto negli anni lo svolgimento di grandi e partecipate May Day.

Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo di rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità che sul terreno della lotta a quel modello di società e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito assemblearmente dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni costruite sul consenso e sull’accordo. In testa più di duecento musicisti, appartenenti a bande di vari paesi d’Europa, reduci dalla cena serale d’accoglienza presso la sede della FAI di Milano curata dalla Banda degli Ottoni, a dare un segnale di festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No Muos, No Expo, la rete ‘Genuino clandestino’, quelli di lotta sul territorio e per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell’USB, lo spezzone rosso nero con lo striscione ‘Expropriamo Expo’, dietro cui sfilavano circa duecento compagni e compagne tra FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l’USI  striscione e Iniziativa Libertaria di Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse individualità. A seguire, e a chiudere il corteo, il SI.COBAS, il ‘Sindacato è un’altra cosa’, e infine vari partiti, da Rifondazione al PCL.

Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e reticolazioni semoventi, a chiusura delle varie possibilità d’accesso al centro città; anche se rimane ‘curioso’ il fatto di aver lasciato parcheggiare le auto lungo il percorso del corteo, così come il fatto che siano rimasti al loro posto i cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente vengono rimosse in previsione di cortei ‘caldi e vivaci’ come ci si aspettava che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica preventivamente criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni e sgomberi delle giornate immediatamente precedenti.

La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè si partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare lo stretto omonimo Corso, ma senza grossi problemi perchè il posizionamento dei vari spezzoni era stata concordato da tempo. Quello che non poteva essere concordato era il posizionamento di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva si potessero posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello che è successo è che queste realtà si sono posizionate all’interno degli spezzoni a loro più affini, soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è evidenziato un comportamento assolutamente refrattario al rispetto degli accordi presi precedentemente. Volontà politiche, sicuramente autoritarie e prevaricatrici, ed in/sofferenze sociali si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha cercato un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione con le forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati con i simboli del potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare un nesso unico, una regia unica, in quello che è successo sbaglierebbe.

Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le urla di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie ed i progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa mettere a fuoco è come il Primo maggio a Milano si sia messo in scena non tanto una replica di quanto già visto a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione di quello che le politiche di austerità, di impoverimento sociale, di rafforzamento autoritario, di restringimento degli spazi di espressione e di organizzazione, stanno producendo: una espressione, fluida, anche contraddittoria, di un malessere sociale ed esistenziale, che nel conflitto, nelle sue varie forme possibili, cerca uno sbocco.

Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati prima con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni urticanti (si dice più di 400) e con l’uso degli idranti, li ha respinti, per rivolgere poi la loro attenzione alle vetrine di banche, negozi di vario tipo, auto, pensiline dei mezzi pubblici, semafori, ecc., mischiando le banche, simboli classici del sistema di sfruttamento capitalistico con attività generiche (un barbiere, un ottico, un ortofrutta…). Insomma tanto lavoro per assicurazioni ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno già offerto rimborsi e organizzato manifestazioni: il 2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così lontano.

Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento dell’intera manifestazione è stato ovviamente molto alto – è stato avanzato anche il sospetto che alcuni all’interno di quello spezzone lavorassero per trasformare tutto il corteo in un terreno di scontro complessivo –  ma se così non è stato è grazie alla determinazione delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia mantenendo le posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi dei lacrimogeni e delle auto incendiate. In questo contesto non si può tacere delle tattiche poliziesche tese da una parte a contenere i danni tra i ‘suoi’ e dall’altra ad evitare che ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da ‘sporcare’ l’inaugurazione di Expo. Del ‘buon cuore’ ipocrita del Ministro degli Interni non sappiamo che farcene.

Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da fare.

La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale del paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe né fiato né sirene da suonare, la disoccupazione cresce e soprattutto quella giovanile, non c’è uno straccio di politica industriale all’orizzonte, le rappresentanze politiche più o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni sociali crescono così come cresce il controllo sociale fino a prefigurare scenari di militarizzazione sociale complessiva, leggi sempre più autoritarie e restrittive sono all’orizzonte sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni di piazza. Non ci vuole molto a capire che, in mancanza di una capacità politica rivoluzionaria in grado di costruire uno sbocco praticabile e condiviso alla situazione che stiamo vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la violenza acefala diventerà l’unica forma di espressione possibile. Esorcizzare quanto è successo non ci aiuta, il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo autoreferenziale men che meno. C’è da rimboccarsi le maniche, sempre più e sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell’autorganizzazione, del duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che sappia essere agente reale e concreto della trasformazione sociale.

Le compagne e i compagni della Federazione Anarchica Milanese