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Una storia piccola piccola dell’anarchismo…

Posted: Gennaio 25th, 2016 | Author: | Filed under: General | Commenti disabilitati su Una storia piccola piccola dell’anarchismo…

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Marianne Enckell

A maggio 68, lettrice, lettore, eravate almeno nati? La storia dell’anarchismo non comincia nell’insurrezione studentesca e gli scioperi operai di quella primavera, ma un secolo prima, quando gli operai d’Europa e d’America creavano le loro prime organizzazioni, i loro primi sindacati. O quando Proudhon rivendicava il termine: se è il vostro ordine a regnare, allora sì, sono anarchico! Gli anarchici amano raccontarsi delle leggende, inventarsi degli antenati e degli eroi. Non c’è niente di male in questo: senza dio né padrone, il culto di san Durruti, delle sante Louise e Emma, o di san Ravachol non fa nessun danno, il loro gesto finisce in canzoni o magliette. Ma la storia dell’anarchismo è una storia di uomini e di donne in lotta, avidi di sapere e di cambiamento sociale, di cultura e d’ideale. È anche una storia di errori e fallimenti, di confrontazioni e di successo, e di una volontà  che non si fa mai abbattere. Essere sfruttato o oppresso non basta a fare degli anarchici, bisogna voler farla finita con il dominio e portare in cuore un mondo nuovo. La storia degli anarchici è largamente assente dai libri di storia e ha fatto breccia nel mondo universitario solo da poco. Le righe che seguono danno un sunto, degli stralci, delle linee di forza, scandite da canzoni.

“Ouvrier, prends la machine, prends la terre, paysan…”
(“Operaio, prendi la macchina; prendi la terra, contadino…”)

Quando i tipografi e gli operai edili scioperano a Ginevra, nel 1868, arrivano aiuti finanziari da tanti paesi d’Europa: le casse di soccorso sono strumenti essenziali della solidarietà, “aspettando che il lavoro salariato sia sostituito dalla federazione dei produttori liberi”. A quell’epoca non ci sono rappresentanze sindacali né istituzioni operaie affermate, ma solamente delle sezioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, l’AIT o “Prima Internazionale”, che esiste da qualche anno. Quando gli sfruttati e gli oppressi si organizzano, sanno che servono dei contatti internazionali per essere più forti, meglio informati: la mondializzazione non data di ieri.

L’AIT confedera ai suoi inizi tutte le correnti autonome del movimento operaio, affermando che “l’emancipazione dei lavoratori sarà l’opera dei lavoratori stessi”. Ma Karl Marx e i suoi vogliono farne uno strumento della loro politica, subordinare l’organizzazione operaia alla conquista del potere politico e, in modo coerente, controllare le attività delle sezioni dal Consiglio Generale insediato a Londra.

Contro questo centralismo autoritario, Michail Bakunin e i suoi amici della Federazione Giurassiana praticano il federalismo e, valorizzano l’esperienza della Comune di Parigi del 1871, danno forma poco a poco a quello che sarà il movimento anarchico e anarcosindacalista. Niente di strano che siano espulsi! Sono quasi tutte le forze vive dell’Internazionale che fraternizzano con loro e che sostengono il congresso “federalista” convocato a Saint-Imier, nel Giura svizzero, nel settembre 1872.

“L’autonomia e l’indipendenza delle federazioni e sezioni operaie sono la prima condizione dell’emancipazione dei lavoratori” dichiara il congresso, che propone di stringere un “patto d’amicizia, di solidarietà e di mutua difesa tra le libere federazioni” stabilendo fra loro una corrispondenza diretta e una difesa solidale, per “la salvezza della grande unità dell’Internazionale”.

La sua dichiarazione più conosciuta e più citata nella tradizione anarchica riguarda la “natura dell’azione politica del proletariato”: è lì  che si dice che “la distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato”, che “ogni organizzazione di un potere politico cosiddetto provvisorio e rivoluzionario per portare questa distruzione non può essere che un inganno ulteriore e sarebbe per il proletariato altrettanto pericoloso quanto tutti i governi esistenti oggi” e che “i proletari di tutti i paesi devono creare, al di fuori di ogni politica borghese, la solidarietà  dell’azione rivoluzionaria”. Difficile essere più semplici e chiari!

Il ramo federalista o antiautoritario dell’AIT ha avuto sezioni importanti in Italia, in Spagna e in Svizzera, e dei gruppi meno numerosi in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti, in Uruguay e in Argentina così come delle adesioni dalla Germania e dai paesi nordici. È stata l’autentico crogiolo del movimento anarchico che si è sviluppato in queste regioni. È nel corso di questi primi anni di esistenza che la Federazione regionale spagnola, in particolare, fa avanzare la discussione su anarcocomunismo e anarcocollettivismo, e che Ricardo Mella e Fernando Tárrida del Marmol propongono il concetto di anarchismo senza aggettivi, che sarà felicemente ripreso negli Stati Uniti da Voltairine de Cleyre.

La storia del movimento anarchico comincia con la fine di questa organizzazione generale di tutto il movimento operaio che era l’AIT ai suoi inizi. Le idee anarchiche, loro, hanno preso vita letteralmente con Proudhon. Ma hanno avuto dei precursori, e grandi.

William Godwin è il primo illuminista a elaborare, nel 1792, una concezione che oppone la”giustizia politica” all’esistenza di una sfera politica separata, a proporre quindi l’abolizione dei governi e degli Stati a favore del bene comune. La sua compagna Mary Wollstonecraft afferma chiari e forti i diritti delle donne, uguaglianza e autonomia. Molto tempo prima di loro, Etienne de La Boétie aveva creato il concetto di “servitù volontaria”, rivelando un altro aspetto del dominio. Altri autori critici o utopici hanno ispirato il pensiero e le pratiche degli anarchici.

Negli Stati Uniti si sviluppa nell’Ottocento una corrente libertaria, ostile a ogni ingerenza dello Stato e a difesa dell’autonomia personale. Anche autori come Josiah Warren, Stephen Pearl Andrews, Lysander Spooner et soprattutto Henry David Thoreau (“La disobbedienza civile”, scritto nel 1849) sono a modo loro precursori dell’anarchismo.

“Si tu veux être heureux, nom de dieu, pends ton propriétaire…”
(“Se vuoi esser felice perdio, impicca il padrone…”)

La storia dell’anarchismo né comincia coi personaggi vestiti di nero e con una bomba sottobraccio, né finisce con loro. Certo, la dinamite è stata una delle forme ricercate per farla finita col vecchio mondo. Nel 1892, le bombe di Ravachol hanno distrutto le case di due giudici che avevano condannato pesantemente dei compagni operai che avrebbero condotto una specie di rivolta il primo maggio dell’anno prima. Il coltello di Caserio ha ucciso un presidente della Repubblica francese nel 1894, l’arma di Czolgosz qualche anno più tardi un presidente degli Stati Uniti. Qualche gran personaggio morto o ferito; di fronte a quanti militanti assassinati a freddo o spediti in galera a vita? E la modernizzazione della polizia internazionale, con la creazione del predecessore di Interpol nel 1898, per sorvegliare e mettere le briglie ai sovversivi.

L’anarchismo propone un’idea semplice e chiara: senza tiranno, sapremo vivere liberi e solidali. Che si tratti dello zar Alessandro II nella Russia del 1880, del presidente Carnot nella Francia delle “leggi scellerate” della fine dell’Ottocento, più di recente del generale Franco che ha schiacciato la rivoluzione anarchica in Spagna o di Salazar il satrapo del Portogallo, i sovrani non sono al riparo da attentati anarchici. Rari sono tuttavia quelli che ne sono morti, essendo i mezzi dispiegati spesso irrisori rispetto ai servizi segreti e alla forze di sicurezza dei dittatori. E non solo gli anarchici hanno cercato di liquidare papi e despoti, per buoni o cattivi motivi.

La “propaganda col fatto” non si riduce mica a pugnale e dinamite. Quando questa espressione è stata creata, segnalava semplicemente il passaggio all’azione diretta – affermazione, resistenza o contestazione – a complemento della propaganda colla parola e lo scritto, questi strumenti tradizionali di un anarchismo illuminato. Gli anarchici più leggendari, Ravachol o Bonnot, sono eroi di paccottiglia; ma leggiamo la difesa di un Clément Duval nel 1887, di un Emile Henry nel 1894 o di un Marius Jacob nel 1905 davanti ai tribunali francesi, dove rivendicano l’esproprio degli espropriatori e il diritto all’autodifesa; difendono gli stessi valori di una Emma Goldman che esalta e pratica il diritto all’aborto e all’amore libero, di un Buenaventura Durruti che pratica la “ripresa individuale” per finanziare progetti editoriali e sostegno ai compagni incarcerati. Quando Michele Angiolillo spara nel 1897 al primo ministro spagnolo, quando Gaetano Bresci uccide il re d’Italia Vittorio Emanuele nel 1900, quando Simon Radowitzky abbatte nel 1909 il capo della polizia argentina, responsabile di una strage di operai alla manifestazione del Primo Maggio organizzata dalla FORA, quando Kurt Wilckens liquida il luogotenente colonnello Varela nel 1923, rivoltato dall’assassinio sotto la responsabilità di questi di 1500 braccianti in sciopero in Patagonia, non ci sono soltanto gli anarchici a salutare il loro gesto e rallegrarsi della scomparsa dei tiranni. Organizzazioni operaie, giornalisti, avvocati, e persino l’opinione pubblica si mobilitano per sostenerli e onorare il loro ricordo.

In altri casi, per quanto il movente possa essere nobile, il gesto di rivolta individuale può avere conseguenze terribili: basti citare l’anarchico serbo Gavrilo Princip che abbatte l’arciduca Francesco-Ferdinando d’Austria nel 1914 o il consiglista olandese Marinus van der Lubbe che appicca il fuoco al Reichstag di Berlino nel 1933.

Ma gli anarchici sono i primi a essere vittime della repressione. Da otto a dieci anni di galera per aver gridato “viva l’anarchia” alla terrazza di un caffé, per aver affisso un volantino antimilitarista, per aver rubato conigli, questo era la tariffa se si era un anarchico noto alla polizia nella Francia del decennio 1890-1900. Ventidue anni di prigione per Alexander Berkman per aver tentato di abbattere il direttore di un’impresa che aveva represso violenza uno sciopero a Chicago. La sedia elettrica per Nicola Sacco et Bartolomeo Vanzetti, arrestati nel 1920 negli Stati Uniti e giustiziati sette anni più tardi per una rapina che non avevano commesso; il loro amico Andrea Salsedo era stato trovato morto sotto la finestra di un commissariato di polizia newyorchese, proprio come succederà a Giuseppe Pinelli a Milano nel 1969. Gli anarchici americani di origine russa sono stati deportati a San Pietroburgo subito dopo la rivoluzione del 1917; i militanti antifascisti tedeschi e italiani sono stati costretti all’esilio o mandati ai campi di concentramento. E la storia purtroppo non finisce qui.

Niente di strano che il vessillo degli anarchici sia nero, colore del lutto e della rivolta.

“Don’t mourn, organize”
(“Non portate il lutto, organizzatevi…”)

La storia dell’anarchismo attraversa il movimento operaio organizzato.

È dapprima negli Stati Uniti, dopo la fine della Prima Internazionale, che i lavoratori alzano la testa e passano all’azione diretta. Nel decennio 1880-1890 si uniscono le forze per la giornata di otto ore, centinaia di migliaia di operai fanno sciopero per rivendicarla. Il 3 maggio 1886 a Chicago, un incontro convocato per opporsi ai crumiri viene disperso brutalmente dalla polizia, ci sono morti e feriti. La manifestazione di protesta organizzata all’istante finisce in baccano: una bomba ha ucciso e ferito sbirri e manifestanti. La condanna a morte dei cinque anarchici accusati a torto di aver ispirato questo attentato suscita un’ondata di solidarietà senza precedenti e un movimento planetario che non accenna a fermarsi; il giorno del Primo Maggio, giorno del ricordo e della lotta per la dignità operaia, diventa il punto di riferimento di tutta la corrente sindacale, dal più rivoluzionario al più accomodante. Ma la memoria dominante cancella presto il ruolo che hanno avuto gli anarchici, e così i partiti socialisti butteranno gli anarchici fuori dalle loro riunioni. Della Prima Internazionale, hanno tenuto in buona sostanza solo il primato del partito politico sull’organizzazione autonoma dei proletari.

Gli anarchici replicano sviluppando la loro presenza sul terreno delle lotte operaie, praticando l’azione diretta, aprendo luoghi come le Borse del lavoro. Ai primi del Novecento, la CGT (Confédération Générale du Travail) francese pensa di organizzare l’insieme degli operai fuori da ogni linea politica; secondo la Carta di Amiens, il suo testo fondatore, il sindacalismo basta a se stesso. Invece la FORA argentina e la CNT spagnola, che nascono nello stesso periodo, sono organizzazioni rivoluzionarie di tipo sindacale che, esaltando l’abolizione del salariato e il rifiuto della politica politichese, mirano al comunismo libertario come obiettivo finale. Ma con una differenza: la CNT è strettamente legata all'”organizzazione specifica”, la FAI anarchica, mentre la FORA intende educare i suoi membri al suo interno per condurli ad adottare il comunismo anarchico. Gli Industrial Workers of the World, negli Stati Uniti, sviluppano nello stesso periodo tecniche originali di organizzazione, di azione diretta, di sabotaggio e di propaganda: è in quel contesto, per esempio, che compare il gatto nero degli anarcosindacalisti e che Joe Hill mette parole rivoluzionarie nelle melodie di canti che tutti conoscono: “Non portate il lutto, organizzatevi!”). Il modello degli IWW, con il suo rifiuto radicale dei negoziati collettivi, si diffonderà in Cile, in Sudafrica, in Australia, dove i suoi militanti saranno in particolare in prima fila nel movimento antimilitarista nel 1914. La SAC svedese, per quanto la riguarda, lotta contro il monopolio della centrale sindacale LO, sviluppa il sistema della tariffa sindacale come alternativa ai negoziati collettivi. CGT e IWW hanno dal canto loro istituito il marchio di fabbrica: si vede ancora a volte, specie su degli stampati, l’indicazione “questo lavoro è stato fatto da operai sindacalizzati”.

La discussione, intrapresa al congresso anarchico di Amsterdam nel 1907 da Pierre Monatte e Errico Malatesta, dura ancora oggi, per sapere se l’organizzazione sindacale è sufficiente come organizzazione rivoluzionaria, se il sindacato è la cellula di base della società futura, o se è intrinsecamente riformista, o ancora se deve essere accompagnato da una organizzazione anarchica “specifica”.

Quando il Partito comunista d’Unione Sovietica cerca di prendere l’egemonia sul movimento sindacale internazionale, gli anarco-sindacalisti ridanno vita all’AIT nel 1922, con tredici organizzazioni che rappresentano un milione e mezzo di lavoratori. Questa confedera le lotte sviluppate nel corso degli anni precedenti, con le loro armi specifiche: sciopero generale, solidarietà, boicottaggio, sabotaggio, e sviluppa le armi culturali con una serie di riviste di qualità come Die Internationale in Germania o il Suplemento de la Protesta in Argentina.

La crisi economica degli anni Trenta, poi il fascismo sferrano un duro colpo alle organizzazioni radicali. I sindacati socialisti e comunisti si ripiegano su posizioni difensive o nazionali, i compagni sono costretti all’esilio, le sezioni dell’AIT si svuotano dei loro membri in diversi paesi. La rivoluzione spagnola e la guerra civile saranno l’occasione di un forte movimento di solidarietà, ma provocheranno anche divisioni e conflitti inattesi.

Dopo anni di vuoto, si vedono ricomparire oggi dei solidi movimenti anarcosindacalisti e sindacalisti rivoluzionari in un certo numero di paesi, con diverse etichette.

“Nostra patria è il mondo intero…”

La storia dell’anarchismo attraversa le rivoluzioni del Novecento e le frontiere. La Comune di Parigi del 1871 aveva attirato la solidarietà attiva dei militanti AIT d’Italia, Polonia, Svizzera che avevano partecipato agli scontri; e i comunardi che dovettero partire in esilio in Svizzera, Belgio, Inghilterra o Spagna vi furono accolti come fratelli.

Emiliano Zapata in Messico è stato ispirato dall’anarchico Ricardo Flores Magón. Durante gli anni della rivoluzione, dal 1910 alla sua morte nel 1919, conduce le sue truppe sotto la bandiera di Tierra y Libertad, uno slogan di cui l’eco è arrivata fino ai nostri giorni: venuto dalla Russia dell’Ottocento, è passato per la Spagna per ritornare in Chiapas.

Nella Russia rivoluzionaria, dal 1917 al 1921, gli anarchici -molti sono arrivati spontaneamente o forzatamente dal paese in cui erano ospiti, Francia o Stati Uniti – difendono l’idea dei consigli operai, i soviet, contro il potere del Partito e dei suoi burocrati, prima che questi ultimi non li costringano all’esilio. In Ucraina, Nestor Makhno conduce l’insurrezione contadina contro i Bianchi controrivoluzionari, poi contro i Rossi che vogliono farla finita con gli anarchici; nell’isola di Cronstadt, marinai e soldati instaurano una Comune libera che resisterà fino a che l’Armata Rossa al comando di Trotsky la schiaccia. Esiliati a Berlino, poi a Parigi e a Detroit, gli anarchici russi continuano le loro pubblicazioni, discutono della loro esperienza, partecipano alla costruzione delle organizzazioni, come mostrano in particolare la piattaforma elaborata da Piotr Archinov e la «sintesi» sviluppata da Voline sulla base di quella di Sébastien Faure.

In Cina, dei giovani che hanno studiato in Francia diffondono le idee anarchiche per lottare dapprima contro i “signori della guerra” , poi contro l’egemonia del Partito comunista. Sono soprattutto inseriti nel movimento operaio nel sud del paese e attivi nei grandi scioperi del 1927 a Canton e a Hong Kong. Lo scrittore Ba Jin (Li Pei Kan) traduce i classici anarchici e pubblica poi una serie di libretti in sostegno alla rivoluzione spagnola. In Bulgaria, gli anarchici hanno partecipato al movimento nazionalrivoluzionario dell’Ottocento, cercando di dargli un carattere insurrezionale. Durante la dittatura fascista e la Seconda Guerra mondiale, sopravvivono in clandestinità per riorganizzarsi subito dopo: nel 1945, il loro settimanale ha una tiratura che arriva a 30.000 copie. A Cuba, gli anarchici pubblicano il loro primo giornale nel 1886 e sono presto attivi nel movimento operaio sindacale e culturale. Sono in prima fila nella lotta contro la dittatura di Machado e quella di Batista. In questi tre paesi, gli anarchici sono stati fra i critici più lucidi delle dittature e i più radicali dei rivoluzionari, prima che i partiti comunisti stalinisti si disfacessero di loro con la violenza.

Nel movimento dei consigli in Germania, Italia e Ungheria, nel 1918-1920, gli anarchici hanno impegnato tutte le loro forze e subiscono le più pesanti repressioni. Gustav Landauer, commissario all’educazione della Comune di Monaco, è assassinato nel 1919, poco dopo Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, i leaders socialisti rivoluzionari; il poeta Erich Mühsam, dopo anni di prigione, muore assassinato in un campo di concentramento nel 1934. La Comune di Budapest è schiacciata nel sangue; le occupazioni di fabbriche del 1920 in Italia, che attestano la crescita del sindacalismo rivoluzionario, sono sabotate dai socialisti che aprono la strada alla “controrivoluzione preventiva” organizzata dalle bande fasciste e lo Stato.

Emigrazione ed esilio sono spesso il solo mezzo di evitare la morte violenta o anni di prigione. Elisée Reclus vive in Svizzera dopo la Comune di Parigi, Piotr Kropotkin ne è espulso e trova un rifugio precario in Francia, poi in Inghilterra. Gli italiani Errico Malatesta e Camillo Berneri sono perseguitati da un paese all’altro. Gli anarchici ebrei di Polonia, Ucraina e Germania sciamano a Londra (dove un altro emigrato, Rudolf Rocker, diventa il loro “rabbino goy”), negli Stati Uniti e a Buenos Aires, dove pubblicano per lungo tempo giornali e libri in yiddish. Gli esili successivi di Emma Goldman e Alexander Berkman hanno dato il titolo a una bella raccolta di lettere, Nowhere at home, A casa in nessun posto. O a casa dappertutto, quando dappertutto si trovano compagni, si ricreano dei gruppi, si scambiano pubblicazioni e corrispondenza?

“Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà”, cantano gli anarchici italiani. Deportati in Nuova Caledonia dopo la Comune di Parigi, Louise Michel e Charles Malato ci incontrano i Canachi e la loro aspirazione all’autonomia; funzionario in Indonesia, Multatuli abbandona le sue funzioni per denunciare il colonialismo olandese nel suo romanzo Max Havelaar; studenti a Londra, Jomo Keniatta et Julius Nyerere seguono le discussioni del gruppo Freedom; più di recente, non-sottomessi e disertori francesi e americani denunciano le guerre imperialiste in Algeria e Vietnam. Sostenere le lotte di liberazione “nazionale” senza sostenere gli Stati nascenti resta ancor oggi una sfida. La recente comparsa di gruppi anarchici in Indonesia, Filippine, Nigeria, stimolati evidentemente da giovani formati nelle Università del Primo mondo e nutriti di Internet, cambierà la situazione?

“Quand nous en serons au temps d’anarchie…”
(“Quando saremo al tempo d’anarchia…”)

Nel 1901, Francisco Ferrer fonda a Barcellona la Scuola moderna, che si ispira al Naturalismo Scientifico e confida nel progresso. Essa mira alla liberazione dell’individuo e alla formazione di uomini e donne capaci di trasformare la società. Esalta la coeducazione dei sessi e delle classi sociali, per attaccare alla base i pregiudizi e preparare generazioni future di menti lucide. Verso la stessa epoca, Paul Robin e Sébastien Faure hanno diretto in Francia delle scuole libere dove la pedagogia era basata sulla libertà, la fiducia, la promiscuità, la combinazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ma è l’esperienza di Ferrer che avrà l’eco più forte: dopo il suo assassinio nel 1909, e sull’onda della simpatia e della solidarietà, delle Scuole moderne, delle Scuole Ferrer sono fondate in Brasile, Svizzera, Stati Uniti, Italia… La pedagogia attiva e le scuole alternative attuali si sono ispirate tutte, direttamente o no, di questi predecessori. In Inghilterra (con la scuola di Summerhill fra l’altro) e negli Stati Uniti, le scuole libertarie sono ancora numerose malgrado le difficoltà opposte loro dal sistema ufficiale. Più di recente se ne sono create in Spagna (Paideia), Australia (School without walls), Francia (Bonaventure).

Non si tratta di educare i bambini soltanto: “il compito rivoluzionario consiste innanzitutto a ficcare idee nella testa degli individui” (Jean Grave). La prima attività di una organizzazione o di un gruppo anarchico è spesso la pubblicazione di un giornale, di libretti, di volantini. Erano venduti a decine di migliaia i testi di Kropotkin, Grave o Malatesta pubblicati ai primi del secolo da “Temps Nouveaux”. René Bianco a catalogato quasi 2000 periodici anarchici in lingua francese dal 1880 al 1980, le altre lingue non sono da meno. Dalla stampa a mano alla quadricromia e alle fotocopiatrici a grandi prestazioni, la “propaganda con gli scritti” è un’arma prediletta degli anarchici; anche qui lo stiamo a testimoniare.

“Diventiamo più reali”, diceva Bakunin agli operai di Saint-Imier nel 1871: che l’organizzazione sia accompagnata da una “vera solidarietà fraterna, non solo a parole, ma in gesti, non solo per i giorni di festa, di discorsi e di bevute, ma nella vita quotidiana”. Comunità e cooperative ne sono un esempio; nel passato, individui e gruppi hanno stabilito delle “colonie libertarie”, dal Belgio (Colonia L’Essai) al Brasile (La Cecilia), dalla Francia (Aiglemont, Romainville, etc.) al Paraguay (Mosé Bertoni); in Uruguay, la Comunidad del Sur fondata cinquant’anni fa si è ricostituita dopo un lungo esilio in Svezia; dopo Maggio ’68, si è andati a fare formaggio di capra e mangiare castagne nelle frazioni abbandonate del Sud della Francia, pochi sono quelle e quelli che hanno resistito alla durezza delle condizioni di vita. Nei loro atenei libertari e nelle loro biblioteche popolari, gli anarchici spagnoli o argentini hanno diffuso da un secolo a questa parte cultura, conoscenze scientifiche e preparazione rivoluzionaria. Gli individualisti, loro soprattutto, hanno sostenuto e praticato le lingue internazionali, ido o esperanto, modo di abbassare frontiere e barriere. L’obiezione alle tasse, ai vaccini, alle istituzioni del matrimonio, del voto e dell’esercito fa parte dello stesso percorso. Oggi, è in tutto il mondo che fioriscono gli spazi autogestiti, occupazioni o infoshop dove si cerca di vivere senza soldi né padrone, dove si inventano nuove forme di scambio e di manifestazioni pubbliche.

Gli anarchici hanno sete di una cultura senza dominio? E la ricchezza di questa cultura è cresciuta grazie a tanti artisti. Gli impressionisti Pissarro, Luce et Signac, i pittori e incisori Steinlen, William Morris, Frans Masereel, Karel Kupka, Man Ray, più di recente Flavio Costantini, Enrico Baj, Cliff Harper, Soulas e altri hanno dato illustrazioni alla stampa anarchica e opere originari alle casse di solidarietà. Joe Hill, Erich Mühsam, Eugène Bizeau, Stig Dagerman hanno scritto poesie e canzoni, Joan Baez, Georges Brassens, Léo Ferré, Paco Ibañez, Fabrizio de André hanno cantato in raduni prima delle Poison Girls, i Black Bird di Hong Kong o i Binamé di Bruxelles. I film di Jean Vigo, Armand Guerra, Jean-Louis Comolli, gli spettacoli del Living Theatre o di Armand Gatti sono altrettanti omaggi all’anarchismo.

“A las barricadas, por el triunfo de la Confederación…”
(“Alle barricate, per il trionfo della Confederazione…”)

Il più bel capitolo della storia dell’anarchismo è evidentemente la rivoluzione spagnola del 1936, malgrado il suo seguito tragico. Per molti mesi, operai e contadini hanno vissuto il comunismo libertario nelle fabbriche e nei paesi, nelle milizie, nelle famiglie, nei servizi pubblici; decine di migliaia di donne hanno partecipato all’organizzazione delle Donne Libere. Ma dovevano anche fare la guerra per difendere la nuova società che creavano.

La confederazione anarcosindacalista CNT, fondata nel 1910, aveva messo tutte le sue forze nell’educazione del popolo, la pratica dell’organizzazione e la preparazione dell’insurrezione. Con la federazione anarchica FAI, dei tentativi rivoluzionari sono effettuati dal 1932 al 1934 in diverse regioni del paese: costituzione nei paesi di collettività comuniste libertarie, assalto contro le caserme e i municipi, che rinforzano il radicamento popolare dell’anarchismo ma suscitano una repressione smisurata e la polarizzazione via dalla sinistra politica. A luglio del ’36, gli anarchicisono tuttavia pronti a replicare al colpo di stato del generale Franco e salgono “alle barricate, per il trionfo della Confederazione”, la CNT: il movimento delle collettivizzazioni si avvia subito, contemporaneamente alla costituzione di milizie.

La solidarietà dei compagni stranieri è immediata; centinaia di anarchici francesi, italiani, tedeschi, argentini, svizzeri, lasciano il lavoro sin dal mese di agosto 1936 per andare a battersi in Spagna contro il fascismo e per la rivoluzione sociale. venticinque anarchici cinesi arriveranno fino a Marsiglia, prima di dover far marcia indietro. Dei camion di viveri e di vestiti, sotto i quali sono spesso nascoste delle armi, traballano attraverso i Pirenei e passano la frontiera fra gli evviva.

Ben diversa è l’attitudine delle democrazie europee e della sinistra socialista e comunista, che temono la generalizzazione della guerra e la vittoria della rivoluzione e adottano una politica di non-intervento. Esse aprono così la via all’appoggio massiccio di Mussolini e Hitler ai fascisti spagnoli: gli mandano truppe, aerei e armi pesanti. È solo a ottobre che l’URSS cambia tattica e incoraggia la costituzione delle Brigate Internazionali, severamente inquadrate, di cui una delle missioni sarà quella di rompere lo slancio rivoluzionario del popolo a vantaggio della guerra.

I fronti si sono moltiplicati così come le vittime, le milizie anarchiche mancano di armi e di munizioni, le fabbriche collettivizzate improvvisano mezzi blindati e obici. Poco a poco, l’industria tutta intera diventa industria di guerra o di retroguardia, e “la guerra divora la rivoluzione”, come scrive allora il libertario francese Pierre Ganivet. Nel suo isolamento, giudicando prioritaria la difesa del fronte antifascista, la CNT prende la decisione discutibile di entrare già a settembre nel governo di Largo Caballero, poi di accettare a fior di labbra la militarizzazione delle milizie. Si fa così posto agli stalinisti che si attribuiscono la direzione di questa guerra. A maggio 1937, attaccano frontalmente gli anarchici e il POUM a Barcellona, assassinando Camillo Berneri che era stato uno dei critici più fieri della partecipazione della CNT al governo. Quest’ultima, presa fra due fuochi, non sa far altro che invitare alla calma.

Le collettività di Catalogna e d’Aragona saranno ben presto riprese, quelle del Levante resisteranno ancora parecchi mesi. A febbraio 1939, Barcellona è presa dalle truppe franchiste, a marzo tocca a Madrid. Migliaia di anarchici e repubblicani sono massacrati o imprigionati, centinaia di migliaia prendono la via dell’esilio e si trovano confinati in accampamenti tirati su in fretta sulle spiagge francesi del Mediterraneo.

Il movimento libertario si è ricostituito in esilio, con la CNT, la FAI e le organizzazioni di giovani e donne, con le divisioni ineluttabili che provoca questo genere di situazioni. All’interno della Spagna, la CNT si è anche ricostituita senza tregua nella clandestinità, al prezzo di numerosi morti e interminabili anni di prigione. È la stessa sorte che è toccata ai guerriglieri che hanno cercato di ricostituire un movimento di resistenza e a un gran numero di militanti che hanno cercato di farla finita con Franco, finché questi non finì da solo nel 1975.

Rue Gay-Lussac, i ribelli non hanno solo auto da bruciare…

Maggio ’68 non è cominciato al mese di maggio ’68. Gli studenti avevano ben dimenticato che l’anarchismo aveva rialzato la testa in Francia e in Italia, appena finita la guerra nel 1945; si era ben dimenticato, negli anni di abbondanza, il coraggio di quelli che pubblicavano dei giornali, riformavano le organizzazioni, riannodavano dei contatti. Nei loro esili, gli anarchici spagnoli hanno contribuito a mantenere la fiamma del movimento, anche se si sono posti a volte come modelli insuperabili; l’antifranchismo militante è senza dubbio stato, così come il movimento contro la guerra del Vietnam, uno dei fattori scatenanti di Maggio ’68.

Dalla presa del potere dei partiti stalinisti nelle “democrazie popolari” dell’Europa dell’Est e in Cina, solo deboli voci vi testimoniavano ancora di un fiero passato anarchico. Nei paesi occidentali e in America, i partiti comunisti si arrogavano la sola opposizione sonora al capitalismo e alle democrazie liberali. Tutti si sono davvero meravigliati a vedere la gramigna anarchica rimettere radici.

Negli Stati Uniti, i vecchi compagni di origine russa, italiana, spagnola hanno avuto loro stessi delle difficoltà a riconoscersi negli hippy e negli studenti in collera; in Germania, c’era solo un pugno di veterani, Augustin Souchy, Willy Huppertz, Otto Reimers, che pubblicavano dei modesti bollettini. In alcuni anni, le librerie si sono improvvisamente riempite di tascabili sull’anarchismo (e su tutte le correnti di sinistra), ristampe, antologie, saggi; i professori hanno cominciato ad accettare di discutere tesi sulla rivoluzione spagnola, su Makhno e su Cronstadt, studi su rassegne stampa, poi lavori femministi e di storia orale. In alcuni anni si è costituita una cultura anarchica di base, accessibile e accettata.

Nel Sud d’Europa, l’anarchismo non era stato completamente occultato, ma anche lì la diffusione delle idee e delle pratiche si è accelerata, così come quella della A cerchiata sui muri. Quando il Brasile ha conosciuto un breve periodo democratico, delle opere erano inviate clandestinamente in Portogallo dove la ferula di Salazar proibiva lo studio della storia del Novecento. Nella Spagna schiacciata sotto il giogo di Franco, la giovane generazione cercava le sue radici, interrogava i suoi padri, pubblicava sottomano. Appena morto il dittatore, centinaia di gruppi hanno adottato il bel nome di CNT.

Nel 1984, anno simbolo se si può dire, alcune migliaia di anarchici si sono messi in strada convergendo verso Venezia per ascoltare conferenze, partecipare a dibattiti, assistere a concerti, visitare mostre, raccontarsi la loro pratica. Nel 1993, erano quasi altrettanto numerosi a Barcellona per l’Esposizione internazionale. Luoghi privilegiati, questi grandi raduni, per far incontrare non solo compagni di lingua e cultura diverse, ma generazioni diverse, appassionati dell’anarchismo classico e giovani squatters, universitari canuti e punkine variopinte. Fra queste due riunioni, la geografia dell’anarchismo aveva preso dimensioni nuove: nei paesi d’America latina e d’Europa dell’Est si costituivano o si ricostituivano dei gruppi, delle pubblicazioni, delle memorie. Questo sviluppo multicolore e multiforme non è stato fermato da allora: gli anarchici hanno un futuro per davvero.

Tutti gli amici della Comune non sono morti senza lasciar nulla…

Questi appunti richiedono certo di essere arricchiti, se hanno saputo stuzzicare la vostra curiosità. (NdT: questo articolo è stato scritto in francese: i testi che seguono sono scelti per un pubblico francofono)

Max Nettlau è considerato come “l’Erodoto dell’anarchismo”, ma la sua fama dimentica che è prima di tutto storico delle idee, e molto di meno del movimento. Per i lettori francofoni, le sue opere sono di difficile accesso. Degli autori recenti hanno seguito le sue orme, Jean Préposiet (“Histoire de l’anarchisme”, 1993), Nico Berti (“Il Pensiero anarchico”, 1998). Peter Marshall (“Demanding the Impossible”, 1992) ha tentato una storia generale del movimento anarchico nel mondo, delle sue lotte e delle sue realizzazioni. Per avere le grandi linee dell’argomento, si può certo leggere Daniel Guérin (“L’Anarchisme”, numerose ristampe dal 1965, e l’antologia “Ni Dieu ni maître”, ristampa 2000), guardare l’album di Domenico Tarizzo (“L’Anarchie”, 1978) e appassionarsi per il bel romanzo di Michel Ragon, “la Mémoire des vaincus” (Livre de Poche). Nella collana “Que Sais-Je”, si preferirà Gaetano Manfredonia (“L’Anarchisme en Europe”) all’antico Henri Arvon (“L’Anarchisme”). Gli atti di un convegno sull’anarcosindacalismo nel mondo, tenuto a Parigi nel 2000, sono stati pubblicati col titolo “Histoire du mouvement ouvrier révolutionnaire”. Negli atti di due altri convegni, “la Culture libertaire” e “l’Anarchisme a-t-il un avenir” (ACL, 1997 et 2001), parecchi capitoli parlano della storia del movimento. Altri lavori si riferiscono a un periodo o a un paese, e le biografie e autobiografie di militanti donne e uomini sono troppo numerose per essere citate qui. In lingua francese, il catalogo della libreria Publico a Parigi, quello de La Gryffe a Lione e la “Feuille mensuelle d’informations du CIRA-Marseille” propongono periodicamente la quasi totalità delle pubblicazioni disponibili riguardanti l’anarchismo.

Delle canzoni che ritmano la saga anarchica sono riprodotte nel libretto “Un Siècle de chansons” (Lausanne, CIRA, rééd. 2001) e figurano in diversi dischi. Due autori hanno studiato di recente “Il Canto anarchico in Italia” (Milano, 2001) in quasi 400 pagine. E si è trovato persino del karaoke anarchico su Internet.

Dall’inizio degli anni Settanta soprattutto, diversi film hanno raccontato episodi della storia dell’anarchismo. In ordine cronologico, iniziamo citando “L’Extradition” (Peter von Gunten, Suisse, 1974), sulle relazioni fra Bakunin e Neciaev e l’espulsione di quest’ultimo dalla Svizzera. Sulla Comune di Parigi, esistono tanti documentari e sceneggiati, come ad esempio “La Barricade du Point-du-Jour” (René Pichon, France, 1971). Sulla rivoluzione messicana, si trova dal peggio al meglio; ci piacerà Marlon Brando in “Viva Zapata” (Elia Kazan, USA, 1952) o il documentario “Zapata mort ou vif” di Patrick le Gall (1993). Makhno è stato trattato male dal cinema sovietico, e salvato da Hélène Châtelain nel suo documentario “Nestor Makhno, paysan d’Ukraine” (Francia, 1996). Sul sindacalismo rivoluzionario, bisogna vedere “Joe Hill” (Bo Widerberg, Suède, 1971) e i documentari sulla Germania (“Anarchosyndikalismus”, FAUD, 1996) o la Svezia (“En Historia utan slut – Una historia sin final”, SAC, 1995). “Free Voice of Labour” (Pacific Street Films, USA, 1980) riporta le lotte degli anarchici ebrei negli Stati Uniti. “La Bande à Bonnot” (Philippe Fourastié, France, 1968) e certi episodi delle “Brigades du Tigre” (telefilm, France, anni Settanta) sono piuttosto nel registro della leggenda, come diversi sceneggiati italiani della stessa epoca. Il film di Montaldo, “Sacco e Vanzetti” (Italia, 1971) val bene i documentari sullo stesso tema. La rivoluzione spagnola è stata filmata giorno per giorno, molti estratti documentari figurano in “Un Autre Futur” (Richard Prost, France, 1988) e, con delle testimonianze recenti di donne, in “Toutes nos vies – De Toda la Vida” (Liza Berger, Carol Mazor, USA 1986) mentre sappiamo bene il successo di “Land and Freedom” (Ken Loach, Grande-Bretagne, 1995). In Argentina, Bolivia e Uruguay, diversi documentari riportano in modo notevole degli episodi storici. Sulla storia recente, oltre alle ricostruzioni del Maggio ’68, si cercherà di vedere il telefilm di Dany Cohn-Bendit, “Nous l’avons tant aimée, la révolution” (France, 1986), e il bel reportage sull’incontro internazionale di Venezia nel 1984 realizzato da dei compagni di Hong Kong, “A Living Song”. Infine esiste un gran numero di biografie filmate, distribuite in francese in particolare dalla libreria Publico a Parigi : Rudolf Rocker, Louis Lecoin, May Picqueray, Armand Guerra…

Quanto ai siti Internet, propongono a migliaia testi, storie, biografie e immagini. Si può cominciare da uno qualsiasi, si arriverà sempre coi links a trovare di che farsi una cultura. Le redattrici e redattori di “Réfractions”, per esempio, gestiscono http://www.plusloin.org (la rivista e diversi testi), http://www.anarca-bolo.ch/cira/ (catalogo della biblioteca del Centre International de Recherches sur l’Anarchisme CIRA – Losanna), http://www.nothingness.org/RA/ et http://melior.univ-montp.3.fr/ra_forum/ (ricerche sull’anarchismo), http://www.atelierdecreationlibertaire.com (Atelier de création libertaire) e partecipano a qualche altra pagina.

(traduzione AcrataZ – http://www.ecn.org/acrataz)


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